(parte quinta)
Chi evita l’errore, elude la vita
Jung
Salii le scale a due a due, nonostante il borsone in spalla, la calura pomeridiana e lo stomaco vuoto. Spuntai su un ballatoio di legno lucido e odorante di cera che portava alle camere.
Un omone corpulento di colore, canotta nera e berretto giallo calato sulla fronte, mi superò, si girò, mi squadrò da cima a fondo e, quasi correndo, prese una scalinata che sporgeva sull’esterno dell’edificio. Prima di inforcare le scale mi fulminò con un’occhiataccia, avrei detto di disprezzo.
Arrivai davanti alla stanza 18, al secondo piano dell’hotel Gorè, a Saint Louis.
Picchiai alla porta, abbastanza eccitato, danzando nervosamente sulla punta dei piedi.
Nessuna risposta.
Mi asciugai la fronte dal sudore, ravviai i capelli e bussai di nuovo, un po’ più forte. Pazientai qualche secondo e cercai di prendere un’aria più o meno disinvolta.
Questa volta, udii qualcosa. Avvicinai l’orecchio alla porta e origliai: era una specie di lamento, un piagnucolio. Girai la maniglia ed entrai. La stanza era nell’oscurità. Seduta sulla sponda del letto, Sawira, con un asciugamano premuto sulla testa, mi guardò con occhi sbigottiti.
– Nino! – esclamò – Oddio, sei tu? –
Si alzò ma non mi venne incontro.
– Sawira, che ti è successo?
– Sono appena rientrata e c’era qualcuno dietro la porta. Mi ha colpito ed è fuggito via. Tutto s’è fatto buio ed ho quasi perso i sensi, anzi, per un attimo li ho persi.
Scansai le tende e aprii la finestra. Il cielo era maledettamente chiaro e il sole picchiava con forza. Non una nuvola, non un briciolo di vento. Avevo bisogno d’aria, di spazio, d’acqua fresca, di un gran gelato al limone. Il caldo, umido e afoso, non mi aveva dato tregua durante il lungo tragitto ed ora mi stava assestando il colpo di grazia.
Inalai una boccata d’aria tiepida e mi feci coraggio.
– Dai qui – dissi sollevando l’asciugamano – Fai vedere.
Il sangue aveva iniziato a raggrumare intorno ai capelli e non si vedeva bene la ferita. Andammo in bagno. Lei mise la testa sotto il soffione e lasciò scorrere l’acqua. Il piatto doccia si arrossò leggermente.
– Devo avere un aspetto terribile – disse, quindi s’infilò tutta vestita sotto una debole pioggerellina giallognola. Solo allora mi resi conto che portava lo stesso abito zafferano che aveva indossato nella mia stanza, a Nouakchott.
– Spegni la luce – aggiunse, mentre lasciava cadere in terra il vestito – Ho male agli occhi.
Premetti l’interruttore, uscii e socchiusi la porta.
Detti uno sguardo alla stanza. Era piccola ed eccessivamente colorata di azzurro e di giallo. Il copriletto, le tende, i comodini, un po’tutto.
Accesi una sigaretta e mi avvicinai alla finestra. In lontananza si intravedeva il famoso ponte sul mare, quello di Eiffel.
Dal cortile, un forte odore di pollo abbrustolito m’arrivò alle narici. Avevo fame, una bella fame arretrata. Finii la sigaretta e, per ingannare lo stomaco, ne accesi un’altra. Avevo le gambe molli e tutta l’eccitazione accumulata durante i trecento kilometri di viaggio era andata a farsi fottere. Mi ci voleva una doccia e un piatto pieno di carne arrostita con vari contorni, oppure i suoi baci. Anzi l’uno e l’altro.
Quando uscì dal bagno, si avvicinò e mi strinse prendendomi dalle spalle.
– Va meglio – disse – non è nulla di grave.
Mi girai. Aveva una maglietta lunga fino al ginocchio e una salvietta intorno al collo.
Scostai i capelli ed esaminai la ferita. Un bel taglio in pieno centro del cranio che aveva lacerato il cuoio capelluto.
– La ferita è piccola – la rassicurai – ma se hai perso conoscenza sarebbe meglio andare all’ospedale. Distenditi, vado a cercarti del ghiaccio. Poi si vedrà.
Posò l’asciugamano sul cuscino e si allungò sul letto scoprendo inavvertitamente cosce e ventre. Restai uno o due secondi impalato poi filai via. Sulla porta mi voltai di nuovo.
Nella hall, ritrovai la sua amica, Diatou Béye, la padrona, una stupenda Wolof con le treccine afro, profumate all’olio di cocco, e gli occhi d’un insolito grigio chiaro, messi in risalto da un carico ombretto azzurro. Mi dette un secchiello di ghiaccioli e delle compresse di garza.
– Suppongo che lei sia il flirt che stava aspettando. Onestamente, non mi aspettavo proprio qualcuno come lei…Bah! Adesso corro in ospedale. Un mio amico infermiere finisce il turno fra una mezz’ora. Lo porto qui, il tempo di andare e tornare.
La seguii fino alla porta. Aveva un bel posteriore tondeggiante che sapeva oscillare sapientemente. Sulla soglia mi fissò con quegli occhi pallidi e perlacei, quasi minacciosi, aggiungendo su un tono particolarmente stizzoso:
– Merda! Questo è un affare per il commissariato. Non va per niente bene e, come se non bastasse, proprio nella camera accanto alle ragazze. Bisognerà farle sloggiare!
Che ragazze? Dove cavolo ero andato ancora a ficcarmi? Ripensai alle parole di Tonio e del Traga e un leggero senso di angoscia provò a destabilizzarmi, ma inutilmente, la rividi seminuda sul letto e l’ansia svanì.
Quando risalii nella camera, aveva messo di nuovo gli scuri e s’era infilata sotto le lenzuola. Mi lanciò la maglietta appallottolata e aprì le braccia.
° ° °
Circa un’ora dopo, l’infermiere, un anziano Diola in bermuda e infradito, con valigetta e tanto di stetoscopio appeso al collo, varcò la porta seguito da Diatou.
– Siamo qui, ma chérie – disse lei, avvicinandosi e prendendole le mani – Ecco Ousmane. È un amico, puoi stare tranquilla. Se c’è da ricucire, ha portato qualcosa per l’anestesia locale.
Sawira aveva rimesso la maglietta e annodato l’asciugamano in vita. La trovai irresistibile, terribilmente sexy, e mi venne da pensare con tristezza che prima o poi le nostre strade si sarebbero separate, inevitabilmente. Ma il tarlo del dubbio stava già mordicchiando là dove non me l’aspettavo e i primi perché vennero in superfice.
Che ci facevo lì? Cos’ero venuto a cercare? Perché tanto affanno per qualcosa di logicamente effimero e fuggitivo? Attratto dall’improbabile, dall’inarrivabile, dalla magia di quello sguardo nero e misterioso, capii che stavo rischiando di perdermi
D’un tratto, mi accorsi che mi stava osservando, le sopracciglia leggermente corrugate e gli occhi lucidi, pronti a versare lacrime. Pensai, cattivamente e senza un vero perché, che doveva sicuramente avere un’idea precisa sull’aggressione appena subita.
Prima di sedersi, disse:
– Non mi hai ancora detto cosa ci fai qui e, soprattutto, quanto hai intenzione di fermarti.
Diatou rise di cuore poi si posò accanto a lei. Ousmane esaminò il taglio e, dopo averlo disinfettato, diradò e tagliò un ciuffetto di capelli e applicò un semplice cerotto.
– Più lo spavento che il danno – affermò – Gonfierà un po’ ed è tutto. Ti lascio qualche analgesico.
Sawira rispose con un’alzata di spalle mentre Ousmane frugava nella valigetta.
– Stasera Maffé di pollo – esordì Diatou – Invito io. È la donna di servizio che sta cucinando. Il tuo amichetto si leccherà i baffi.
Dopo una lunghissima doccia e un sonnellino riparatore tirai fuori una polo pulita e un bermuda leggero e mi preparai per la serata.
Allo specchio osservai le braccia secche e annerite dal sole, gli occhi leggermente incavati e un bell’ammasso di stoppa al posto dei capelli.
Raggiungemmo Diatou nell’atrio. Ci dette la chiave di una nuova stanza che la cameriera aveva appena finito di rassettare e ci rassicurò dicendo che avrebbe chiuso la porta dell’hotel e l’accesso alle scale di servizio.
– Ho solo due camere occupate e i clienti sono tutti dentro. Possiamo dare un giro di chiave.
Cenammo a lume di candela, nel cortiletto fiorito dell’hotel.
Il pollo al burro di arachidi fu una leccornia e il vino, due bottiglie di un Manchuela bianco, rese ancora più allegra la serata.
Presto divenni brillo, come le due donne che ridacchiavano per conto loro, divagando e continuando a lanciare battutine spinte. Diatou, più che disinvolta, parlava apertamente di sesso, lanciava occhiatine provocatorie e di tanto in tanto mi dava delle pacche sulle ginocchia.
“Che dici?” – faceva – “Non può fare poi così male, no?” Oppure…”Il sesso deve essere divertente e crudo, che ne pensi?”.
A volte le loro voci si allontanavano e mi perdevo nelle mie fantasticherie, a causa del vino certo, pensando agli amici o al proseguimento del viaggio.
Per tacito consentimento, nessuno fece la benché minima allusione al colpo in testa di Sawira, nessuna domanda imbarazzante. Trovai molto strano che Diatou non chiedesse nulla alla sua amica e che tutto sembrava scontato.
Le cose stavano comunque andando per il verso giusto. In alto, una gran luna attraversò il quadrato di cielo sul cortile.
D’un tratto Sawira parve ricordarsi di me e mi toccò un braccio.
– Cristo santo! Nino, ma non apri bocca? Non hai un cazzo da raccontare, sul serio?
Aveva bevuto anche lei, forse più del dovuto.
– Stavo fumando e assaporando il vino – obiettai – Mi piace stare ad ascoltarvi. Per il momento, non domando altro.
Scosse la testa e alzò le spalle mentre Diatou si alzava per rispondere al telefono.
– Abbiamo molto da dirci noi due, vero?
– Si, però adesso non diventare seria. Abbiamo tempo. Godiamoci la serata.
Aveva indossato delle espadrillas bianche e un vestitino color menta scollato, proprio carino, con un nastro fra i capelli dello stesso colore.
– Domani devo prendere una nave – disse – e tu dovresti venire con me, anche perché parte da Dakar e arriva a Ziguinchor. Non è là che devi raggiungere i tuoi amici per la tua spedizione in canoa?
Fui preso alla sprovvista, dissi:
– In effetti è così. Ma tu che ci vai a fare in Casamance?
Riempì i bicchieri di vino senza staccare gli occhi dai miei. Bevve una bella sorsata prima di rispondere.
– Ho pensato che a te posso dirlo. Non so bene perché, ma in te ho fiducia. Poca gente ne è a conoscenza, Jamal, naturalmente, poiché è lui che lo ha trovato, la mia famiglia e adesso tu. Ho un progetto, qualcosa di solido. Sto per comprare un gran terreno a due passi dal mare. È un vecchio accampamento circondato da buganvillee, a pochi kilometri da Ziguinchor. C’è una grande casa tradizionale col tetto di paglia e anche il blocco sanitario. Finite le sfacchinate nel deserto, le piste, la polvere. È giunta l’ora ch’io mi prenda carico di un mio vecchio sogno.
– Un villaggio turistico?
– Qualcosa del genere.
Mi prudeva la lingua dalla voglia di chiederle se quei diamanti non avrebbero dovuto servire a questo suo gran progetto e, più che altro, se era una roba pulita, ma la tenni chiusa, pensando che le cose sarebbero venute a galla da sole e che per ora non c’era bisogno di approfondire.
– Allora? – chiese – Si fa la strada insieme?
Alzai il bicchiere e dissi:
– Sai cosa c’è di più bello a questo mondo?
– Dai, dimmi, sono tutta orecchie.
– È sentirsi come all’inizio della propria vita. Ed è questa l’impressione che ho avuto poco fa, su in stanza.
– E allora?
– Allora va bene, ti accompagno a Ziguinchor.
– Ha, ha – ridacchiò – Sono contenta – poi ridivenne seria e, prendendo un’aria corrucciata, aggiunse: – Non provare a mettermelo Nino eh? Non tu, te ne prego !
° ° °
Sembrò che non fosse passata nemmeno un’ora da quando ero riuscito ad addormentarmi, invece erano le sei di mattina e Sawira mi stava scrollando per le spalle.
– Giovanotto – disse – bisogna andare.
Nella penombra, intravidi un gran groviglio di boccoli che le scendevano sulle spalle
– Scusa, ma quando hai trovato il tempo di aggiustarti i capelli così?
Andò alla finestra e aprì le persiane. La luce entrò e la illuminò, mentre il muezzin lanciava, attraverso i potenti altoparlanti della moschea, la prima litania del mattino.
– Mi sono alzata due ore fa. In effetti ci ho messo un po’, ma ora sono pronta. Mi manca solo un foulard per nascondere il viso, un’ultima precauzione dopo l’incidente di ieri.
– E tu lo chiami incidente?
Mi ero ripromesso di non toccare quel tasto ma mi era scappato. Lei non rispose, allora continuai facendo finta di niente. Le chiesi come andava la ferita e se voleva che le cambiassi il cerotto.
– Già fatto. È solo indolenzito. Domani non ci sarà più nulla. Dai sbrighiamoci, abbiamo almeno quattro ore di macchina fino a Dakar. E poi il mare, ci imbarchiamo per Ziguinchor.
Mi piaceva con tutti quei riccioli. Le chiesi se potevo farle una foto.
– Se riesci a farmela mentre mi muovo – rispose.
Tirai fuori la Nikon e scattai due o tre foto mentre infilava una marea di cose nella valigia.
Mi vestii in fretta, pantaloni corti e camicia larga, beninteso stropicciata. Sawira aveva inforcato un paio di occhiali da sole e avvolto la testa con uno scialle che le copriva anche metà del volto.
Diatou aveva messo appositamente la sveglia per salutarci. Fece un sacco di raccomandazioni alla sua amica e, dopo aver buttato giù due tazze di caffè nero, ci accompagnò alla porta e ci abbracciò affettuosamente.
Appena fuori notai, a una ventina di metri dall’hotel, una enorme Lincoln nera che stava manovrando con fatica per parcheggiarsi. Era presto e non c’era gran mondo in giro. Al volante, l’uomo che mi aveva guardato di traverso sul ballatoio dell’hotel, tutto preso a infilarsi nello spazio esiguo fra due auto in sosta. Non ci vide.
Sawira seguì il mio sguardo e subito mi chiese di accelerare il passo e svoltare in una via traversa. Arrivammo nella piazza dove sostavano le corriere e i taxi-brousse, lei contrattò il prezzo del viaggio per non avere altri passeggeri a bordo e salimmo su un furgoncino, un otto posti tutto per noi.
– Speriamo che si dia una mossa – brontolò – Tanto è solo per pochi kilometri, poi cambiamo auto.
Venti secondi dopo eravamo già in viaggio. L’automezzo filò veloce sulla strada ancora poco trafficata, delimitata a tratti dai primi giganteschi baobab.
Dopo una mezz’ora traversammo un gran villaggio. Sawira indicò all’autista una stradina traversa e poi un’officina, laddove, seppi poi, due dei conducenti della carovana avevano condotto precedentemente le auto da rimettere a posto.
Il meccanico stava appena aprendo. Riconobbe Sawira e ci venne incontro con un gran sorriso.
– La sua auto è pronta – disse – le altre due le cominciamo oggi, ieri ho ricevuto i pezzi. Fra due giorni, quando Jamal passerà di qua, saranno come nuove.
Sawira pagò e salutò l’autista.
Prendemmo i bagagli e li infilammo in una vecchia Hyundai grigia, coupé, parcheggiata davanti all’officina.
– Questa è la mia – affermò con orgoglio – piccola e un po’ rumorosa ma è la mia!
Decisamente quella donna non smetteva di stupirmi. Ogni giorno ce n’era una nuova. Bevemmo un tè servitoci dalla moglie del meccanico, caricammo i bagagli nella Hyundai e partimmo all’istante.
Appena fuori dal villaggio, si fermò in una stazione di servizio. Fece il pieno e mi chiese di prendere il volante.
Si appisolò quasi subito, mentre io mi godevo pigramente il paesaggio, prendendo il tempo di osservare tutto e tutti, approfittando di quell’atmosfera avventurosa in cui m’ero ritrovato, o forse intrufolato.
Spesso, mi giravo e la guardavo. La trovavo ancora più misteriosa con quel foulard che le copriva gran parte del viso e gli occhiali scuri. Chi ti corre dietro? Cosa stai fuggendo? Chi sei? Mi domandavo, poi tornavo con gli occhi sulla strada, a volte distratto dai volteggi di falchi dal rostro giallo o ancora di alcuni strambi uccelli bianchi e neri, che andavano ad appollaiarsi sui rami delle acacie.
Col trascorrere dei kilometri, il verde si intensificò e arrivarono i primi campi coltivati, le mimose, i carrubi, le altissime piante di cola con fiori bianchi e lillà attaccati al tronco e in ultimo le palme. A differenza della Mauritania, quella terra, anch’essa incastonata tra l’oceano e il deserto, esibiva i suoi colori vivaci, la sua vitalità allegra e sfaccendata, tipicamente africana. La vita scorreva lenta, tinteggiandosi di terre rosse e, finalmente, di erba!
Più in là, la strada cominciò a ingombrarsi di camion, pulmini multicolore, furgoncini rattoppati e stipati a morte che fungevano da taxi, motorette cariche davanti e didietro, biciclette e animali: ci si stava avvicinando a una cittadina importante. Ogni due, tre kilometri la fila d’automezzi rallentava a causa di lavori di bitumazione della carreggiata e allora si procedeva a due all’ora, respirando i fumi ammorbanti dell’asfalto caldo. Il sole di mezzogiorno dardeggiava impassibile, infuocando i tettucci delle auto e i crani di ogni povero diavolo costretto a guidare, correre o pedalare sulla strada fumante.
A circa un paio d’ore di viaggio da Dakar mi accostai sul ciglio della strada. Eravamo giunti a Kébémer, una cittadina a pochi kilometri dal mare.
Sawira aprì gli occhi. Nonostante avesse dormito confessò di sentirsi stanca e giù di corda.
– Bisognerà rifocillarsi – disse – altrimenti svengo.
Pensavo la stessa cosa. D’altronde avevo appena visto un cartello che indicava un ristorante. Glielo dissi.
– Lascia fare me – continuò – andiamo a mangiare del pesce appena pescato, fanno il couscous di miglio con l’orata. Ti piace il polpo? Lo preparano in tutti i modi.
Aprì la portiera e scese dall’auto per prendere il mio posto al volante. La vidi vacillare e poi poggiarsi sul tettino. Era pallida e malsicura.
– Che c’è? – chiesi – Non ti senti bene?
Esitò un istante prima di rispondere.
– Mi gira la testa. Deve essere la botta, credo…
– Cristo. Penso che l’abbiamo presa un po’ troppo sottogamba. È stata una stronzata partire così su due piedi, senza nemmeno una radiografia. Sai che si fa? Ingoiamo un boccone al volo e se non va meglio cerchiamo un dottore. Ho visto che più in là c’è un centro medico.
Aveva l’aria affranta, irriconoscibile. Si tolse gli occhiali e si guardò intorno.
– Non riesco a vedere bene. Forse è la mancanza di zuccheri…
Ridacchiò stranamente e si asciugò il sudore delle mani lungo i fianchi.
– Forza, continuo a guidare – feci e mi rimisi al volante.
– Sei troppo ansioso, vedrai che non è nulla. Ho avuto di peggio.
– No comment – rimbeccai – adesso proviamo a mettere qualcosa nello stomaco e se non cambia nulla ti fai visitare, e questa volta niente infermieri. Un buon medico, ecco cosa ci vuole.
Approdammo in un ristorantino un po’ decentrato, in una piazzuola di terriccio ocra attorniata da amaranti fioriti. Alcuni maiali neri grufolavano all’ombra degli alberi.
Non c’era quasi nessuno e i pochi clienti mangiavano in terrazza. Sawira insistette perché ci sedessimo dentro, lontano dal puzzo dei maiali.
Ci servirono polpo e miglio con salsa piccante ma lei non toccò quasi nulla. La costrinsi a bere acqua e anche un po’ di tè. Quando mi disse che aveva un fastidioso formicolio alle gambe, decisi di interrompere la pausa pranzo.
Eravamo ben distanti dalla capitale. Trovai più prudente fermarmi al dispensario locale e incontrare un medico. Sawira, cocciuta come un mulo, continuò a sottovalutare quei maledetti segnali di peggioramento.
– Sono un po’ sottosopra – reagì – è vero! Ma dire che sono in pericolo di vita, mi sembra eccessivo.
Parcheggiammo poco lontano dal dispensario e camminammo in silenzio fino all’entrata deserta e assolata.
All’accettazione, una piccolotta con un panno tradizionale legato sotto il petto, prese nome e cognome di Sawira e si recò immediatamente in una stanza in fondo al corridoio.
Un tipo in blusa bianca si presentò qualche minuto dopo. Aveva un bel viso aperto e sfoggiava un pizzetto bianco che spiccava sulla pelle nera.
– Mi hanno detto che è un’emergenza, ma non vedo sangue – fece sghignazzando – Ha, ha, era solo una battuta per allentare la tensione.
Sawira mi guardò allarmata – Non mi lasciare sola! – piagnucolò. Aveva i tratti tirati e sudava copiosamente. Le strinsi la mano pensando che le cose stavano sicuramente peggiorando.
Il medico l’aiutò a allungarsi sulla barella e la sospinse fino a una camera adiacente. Sulla porta si voltò, rise di nuovo e disse:
– Penso che lei non sia della famiglia, ha ha, ma entri pure, la prego.
Fu una visita lampo. In primo luogo, le fece qualche domanda sui sintomi: vertigini, nausea, sonnolenza e entità dell’emicrania. Quindi le chiese di abbassare le palpebre, gli puntò la luce della lampada tascabile sugli occhi chiusi e glieli fece riaprire.
– Le pupille – ci spiegò – una volta riaperti gli occhi, devono restringersi immediatamente e in modo regolare, descrivendo un cerchio durante la chiusura. Nel suo caso, il cerchio diventa ovale e non è buon segno. Le conseguenze di una commozione non curata possono essere gravi. Allo stato attuale, vi consiglio di arrivare a Dakar dove c’è un centro di radiologia e anche un neurologo. Ora telefono all’ospedale militare e li avviso del vostro imminente arrivo.
Sulla porta aggiunse, rivolgendosi a me:
– Non perda tempo e, in auto, le metta un foulard sugli occhi. L’ideale sarebbe riposo a letto e penombra ma per il momento, ritengo necessaria una visita specialistica ed un’eventuale lastra.
In tutto quel tempo, Sawira non aprì bocca. Una volta in macchina, osservò la propria immagine nello specchietto dell’aletta parasole.
– Ma dai, non vado male fino a questo punto! – esclamò.
– Ascolta, ti sia ben chiara una cosa, non ho nessuna intenzione di lasciarti in questo stato. Per me equivarrebbe ad abbandonarti. Quindi resterò con te fino a quando sarà necessario.
Mi baciò sulla guancia, mi prese la mano e la posò sul suo ventre quindi mi confidò che s’era legata una fascia intorno alla vita, sotto il vestito, una larga cintura nella quale aveva nascosto qualche banconota e alcune “pietruzze” come quella che mi aveva lasciato a Nouakchott e che, semmai avessero voluto trattenerla in ospedale, avrei dovuto tenere bene al sicuro il suo tesoro.
– Sono convinta che ti manda il cielo – bisbigliò appena – Credo proprio che in questo frangente, io abbia bisogno di qualcuno accanto…Sai, a parte la botta in testa, ho passato dei momenti formidabili. Je t’en remercie!
Avviai il coupé e mi infilai nell’ingorgo della nazionale. Lei tirò giù il sedile e si allungò, poi, improvvisamente, si alzò il vestito, slacciò la cintura dalla vita e me la passò.
– Ti consegno la mia vita – fece – Quando arriviamo prendi un buon hotel e guarda se hanno una cassetta di sicurezza. Insomma, fai come puoi, ora sono nelle tue mani.
– D’accordo – risposi – ma non esagerare, non hai motivo di preoccuparti. Può darsi che in ospedale non ti trattengano.
– Dentro ci sono anche un po’ di soldi – continuò – Se ne hai bisogno per l’hotel o altro. Insomma, fammi stare tranquilla.
Fermai di nuovo l’auto, allacciai a mia volta la cintura intorno allo stomaco e partii a razzo. Dakar era ancora lontana.
– Il mal di testa sta salendo – si lamentò – Dammi l’acqua che prendo un antalgico.
Mentre le passavo la bottiglia, mi sorpassò la Lincoln, a tutta birra. Non dissi nulla, pensando che non era il caso di impensierirla ulteriormente, ma il mio cervello partì in ebollizione. Coincidenza? Caccia all’uomo? Ora c’ero dentro mani e piedi e non potevo far altro che tener duro.
Procedetti a bassa velocità, per lasciarmi distanziare dall’altro e anche per il conforto di Sawira.
Feci una sola sosta: riempii il serbatoio, comprai dell’acqua e fumai una sigaretta. Della grossa berlina nera più nulla.
Lei continuò a sonnecchiare. A tratti apriva gli occhi e per chiedermi a che punto eravamo, se mancava ancora molto.
Quando arrivammo all’ospedale provai a svegliarla, ma inutilmente. Dovetti chiamare due infermieri per recuperarla con la barella.
All’accettazione, spiegai che aveva ricevuto un colpo in testa, il giorno prima, e che solo da poche ore aveva iniziato a preoccuparmi seriamente. Riempii un questionario. L’agente di turno prese i dati del mio documento e mi chiese dove sarei stato reperibile, nel caso in cui ce ne fosse stato bisogno.
Non so in quale hotel andrò. Vi farò sapere fra qualche ora.
Rigirò il passaporto di Sawira in tutti i sensi.
– Ma questa donna è del Mali! – esclamò come se avesse detto ha due nasi – Conosce qualcuno della famiglia?
– No, ci siamo incontrati da poco. In Mauritania.
– Può dirci qualcosa di più preciso sulle circostanze dell’aggressione?
– No, non c’ero. Sono arrivato qualche minuto dopo, purtroppo.
– È nostro dovere fare rapporto alla polizia. Sicuramente dovrà rispondere alle loro domande.
– Non è un problema. Mi cerco un posto dove dormire poi torno di nuovo. A dire il vero, se potessi resterei qui.
Il dottor X la sta visitando e potrà darle subito una prima impressione, anche se non sarà proprio una diagnosi. Per ora non preoccupiamoci più di tanto, ha gli occhi aperti e parla quasi normalmente.
Quella sera avrei dunque dormito solo, in un albergo chic sulla strada dell’aeroporto, un rifugio sicuro, lontano dalla città e dal traffico, in una vera oasi di pace. L’indirizzo me l’aveva rifilato proprio l’agente di servizio.
Prima di cena tornai all’ospedale, Sawira era in un lettino, in una stanza piccola e semi buia e sonnecchiava. L’infermiera avvisò il dottor X del mio arrivo e, dopo una buona mezz’ora mi ricevette.
Mi annunciò che l’ufficiale radiologo aveva trovato una leggera lesione ossea, niente di veramente grave ma che la paziente doveva essere monitorata alcuni giorni, per precauzione.
In fin dei conti, la diagnosi fu rassicurante, allora rientrai in albergo, mangiai un piatto a base di pollo e riso e andai subito a letto.
Dormii male, sognando deserto, berline nere, dottori in camice, sonde e teste bendate. Così, all’alba, ero già sveglio.
Mi alzai, lavai e vestii, indossando di nuovo la preziosa fascia, e scesi a passeggiare nel parco dell’albergo nell’attesa che uno slavazzato caffè solubile mi venisse servito. Quando montai nella Hyundai mi ripromisi due cose: primo, una ricerca accurata di un vero espresso, secondo, lasciare l’auto di Sawira nel parcheggio dell’ospedale e prendere un taxi per recarmi al porto, chissà che il Traga e Tonio non stessero ancora sbrigando le pratiche per lo sbarco della Land. Con un po’ di fortuna avrei potuto incrociarli. Tentar non nuoce.
° ° °
L’infermiera mi pregò di lasciarla dormire e se possibile rivenire un po’ più tardi, magari nel pomeriggio. Decisi di partire alla ricerca del mio vero caffè.
– Ehilà! Non si saluta più? – disse. L’avevo urtato inavvertitamente e non l’avevo riconosciuto.
– Nelson, che sorpresa!
Avevo percorso un centinaio di metri in direzione della grande avenue dove avevo visto un grande albergo piuttosto signorile con ristorante e bar.
– Che ti è successo? Che ci fai qui vicino all’ospedale?
Aveva il fiato corto e sudava copiosamente. Risposi chiedendo a mia volta:
– Quale ospedale? E tu? Non dovevi essere a Nouakchott?
Il tempo di un lampo, il cervello s’era messo in allerta. Quel volto tirato e imbarazzato non mera andato giù.
– Sono appena tornato dal porto dove ho caricato un po’ di merce. Ho il furgone poco distante.
– Ah, e così vieni dal porto? – chiesi, ma evitai di approfondire la cosa – Incrociarsi per caso, qui – continuai – davvero pazzesco.
Non nominai l’ospedale e nemmeno lui, ma qualcosa mi diceva che anch’egli, come me, stava mentendo e che mi aveva abbordato per saperne di più. Dovevo assolutamente tagliar corto e piantarlo in asso. Mi chiese in quale albergo ero sceso e se quella sera avremmo potuto mangiare un boccone insieme. Elusi la prima domanda e per la seconda cercai velocemente una scusa plausibile. Poco distante vidi il grande albergo.
– Purtroppo, devo lasciarti. Ho un amico che mi sta aspettando nel bar di quell’hotel, è con lui che ceno questa sera. Comunque, grazie, con un po’ di fortuna ci incontreremo ancora.
Guardò a destra e a sinistra e anche dietro di lui. Infine, chiese:
– A proposito, e Sawira? L‘hai più vista?
– Mi sarebbe piaciuto, davvero. Ma, a quanto ne so, è rimasta a Saint Louis, o almeno credo.
– Bella tipa, non è vero?
– Ci puoi giurare.– E con quest’ultima frase e una pacca sulla spalla mi congedai.
Lo vidi attraversare la strada ed entrare in una sorta di emporio. Poco lontano, la grossa berlina nera avviò il motore e scivolò pesante nel traffico.
° ° °
Noi corriamo sempre in una direzione
Ma qual sia e che senso abbia, chi lo sa!
(Incontro – Guccini)
Finalmente nella Land, finestrini aperti e musica a palla. Tonio non smetteva di reinserire “Radici”, uno dei pochi nastri sopravvissuti alle traversie del viaggio. – Mi ci voleva, cacchio! Tutte ‘ste cantilene m’hanno ammorbato.
Il Traga guidava con una sola mano, un braccio penzoloni dal finestrino, la cicca appesa alle labbra piegate in un bel sorriso soddisfatto.
Avevo raccontato un po’ tutto o quasi, insomma quello che avevo potuto in una corta mezz’ora, mentre la gru portuale scaricava l’auto dalla nave.
Un agente di transito ci aveva aiutato a svolgere le pratiche per il passaggio dell’auto e, in un tempo record, ci ritrovammo al di fuori della zona doganale, felici e di nuovo motorizzati.
– Non me l’aspettavo proprio di trovarvi al porto, proprio oggi e a quest’ora – dissi – Se avreste recuperato l’auto ieri non vi avrei sicuramente rivisto fino a Ziguinchor.
Il Traga, rasato di fresco e con una camicetta larga hawaiana, gettò la cicca dal finestrino, ravviò i capelli all’indietro e sentenziò:
– Nulla succede per caso. Se siamo di nuovo insieme, c’è una ragione.
Respirò a fondo l’aria calda mista ai gas di scappamento, tossicchiò, quindi riprese:
– E poi, questa storia della Sawira, mi tocca particolarmente. Forse gliene ho voluto a torto. Se i fatti stanno come dici tu, dovresti tirarla fuori dall’ospedale e magari portarla tu in quel suo terreno. Dai che ti aiutiamo, eh Tonio che lo aiutiamo?
Ma Tonio era altrove. Gli occhi chiusi, canticchiava e teneva il ritmo tamburellando sulle ginocchia.
– Bah! – riprese l’altro – Insomma, tanto è d’accordo!
Filammo veloci in direzione dell’hotel dove avevo preso dimora. La strada costeggiava il mare. Profumi intensi di legna resinosa si alternavano agli effluvi marini e più in là al pesce messo a essiccare accanto alle reti e alle canoe variopinte.
Ci fermammo a un banchetto di frutta. Avevamo una voglia matta di manghi maturi, banane, papaye, avremmo divorato un chilo di frutta a testa.
Mangiucchiando goyave, camminammo lungo una spiaggia dove alcuni lavoratori caricavano i camion con la rena.
Il Traga ci prese per le spalle stringendoci calorosamente.
– Che mondo sarebbe se non avessimo dei buoni amici al nostro fianco?
Mi sentii in imbarazzo e una ragione c’era. Avevo raccontato loro la disavventura di Sawira con tutti i particolari possibili ma non che le gemme fossero sotto la mia camicia. Quello l’avevo omesso, forse per una sorta di rispetto per lei che voleva che il suo tesoro fosse tenuto segreto e al sicuro. Per lei, che s’era fidata ciecamente del sottoscritto, così, istintivamente, più a pelle che altro. Ma con i miei due compari il marsupio era ancora più “protetto” e poi tenerli in disparte non mi pareva onesto, soprattutto con quegli sgherri che gironzolavano nei dintorni, in primis Nelson, secondo me un doppiogiochista.
Decisi di spiattellare il resto.
I due sgranarono gli occhi.
– Alura?! – esordì il Traga – dai tira fuori.
– Così? Qui, davanti a tutti?
– Te ghe rasün! Spicciamoci ad arrivare in albergo.
Balzammo in auto. La Land partì a razzo alzando un gran polverone. Il Traga spinse a fondo sull’acceleratore e in un lampo arrivammo a destinazione.
Lasciai la mia camera e ne ottenemmo una doppia, familiare, una suite con quattro letti di cui un matrimoniale. Prendemmo delle birre fresche al bar e iniziammo a berle accomodati sul lettone.
Mi tolsi la cintura e la svolsi con cautela. Apparve una lunga cerniera lampo e ne aprii qualche centimetro. Il Traga e Tonio erano eccitati come bambini davanti alla torta di compleanno. Sfilai un primo involucro di plastica contenente una decina di pietre, quindi richiusi il resto, che già mi pareva di avevo violato qualcosa.
– Vi lascio dare un’occhiata e rimetto a posto com’era – brontolai – Non mi sento molto fiero di me.
Aprii e lasciai cadere sul copriletto. Il Traga aveva preso dalla Land la lente per la lettura delle mappe. Raccolse le pietre una dopo l’altra per esaminarle da vicino. Un paio di minuti dopo ci somministrò una corta ma precisa lezione di gemmologia:
– La purezza dei diamanti si giudica dal taglio. Questi sono grezzi ma incolori, quindi direi abbastanza rari. Sembrano puri, la caratura è buona e anche tagliati a brillante non saranno poi così piccoli. Guarda questo farà più o meno un grammo, cioè cinque carati…Urca ve! Questo è ben grande, forse 7 o 8 carati. Di un po’, ma ce n’è altri così?
Non lo so. Quello che dobbiamo fare ora è rimetterli via.
° ° °
Intermezzo musicale!
– Ma dove cacchio è ‘sto posto – mugugnai – guarda che ci siamo sbagliati.
Tonio smise per un attimo di soffiare nella sua piccola armonica, una solfa ripetitiva, quattro o cinque note per una sorta di blues languoroso e addormentante.
– Ma no, dev’essere qui vicino – disse – Quello ha detto accanto al piazzale dei taxi.
– Dai, su: fa ballà l’oeugg! – si spazientì il Traga – che fa un caldo bestia.
Sbagliammo di nuovo strada e ci ritrovammo nel trambusto di una stazione degli autobus. Depositi d’immondizie, cessi di fortuna e accanto, a rafforzare le emanazioni del piscio, l’odore dei pesci messi a essiccare in terra e, per coronare il tutto, a pochi metri, alcune donne che si affaccendavano, nonostante la puzza e le mosche, a cucinare pietanze al riparo di vecchi ombrelloni.
Tonio ricominciò a sbuffare nel suo piccolo strumento, fottendosene della baraonda e delle urla dei galoppini e dei procacciatori di passeggeri.
Ai nostri occhi europei tutto ciò pareva inverosimile, paradossale e assai mefitico! Tirammo su i finestrini nonostante i 35 gradi, clacsonando per farci largo.
Riuscimmo infine a svincolarci in una strada vicina, imbattendoci per puro caso nel negozietto d’arte di un certo Traoré, dove avremmo potuto cambiare un po’ di dollari in franchi CFA, l’ultima moneta coloniale vigente in Africa.
Sulla soglia, seduto a gambe incrociate, un vecchio Wolof suonava una kalimba con le lamelle di bambù. Era Traoré. Poggiò lo strumento, accese il fornello di una vecchia pipa e ci chiese di seguirlo nel retro. Tonio tirò fuori il gruzzolo e cambiammo più della metà in moneta locale, quindi, sempre Tonio, volle comprare il piccolo strumento a pizzico di Traoré.
Se lo studiò, quindi provò ad arpeggiare con i pollici sulle assicelle. Blin, blin, blin…
– È facile – disse – in due tre giorni ne avrò la padronanza.
Ci rincoglionì durante il viaggio fino all’ospedale. Armonica e kalimba, blin, blin, blin…
° ° °
Mi stava aspettando.
Vestita con gli stessi abiti con su un camice da infermiere, sgusciò da dietro una colonna e mi afferrò per un braccio. Il foulard le copriva il viso lasciando scoperti gli occhi.
– Sei qui, grazie a Dio! – bisbigliò.
– Che ci fai vestita così. Che succede?
Il caldo umido e gli odori di etere e dell’alcol davano alla testa.
Mi baciò sulla guancia.
– Sono un po’ sudata – disse imbarazzata – per il resto sto benone.
– Non mi hai ancora risposto: che ci fai con un camice bianco?
– L’ho visto! – esclamò, e gli occhi divennero lucidi, pieni di spavento.
– Chi, Nelson? Se è di lui che parli, l’ho già incontrato a due passi da qui e mi ha chiesto dov’eri. È stato come se…
– No, Nino, non lui – mi interruppe – Credo che il mio aggressore sia qui, in questo ospedale. Non ne sono proprio sicura poiché dopo che mi ha colpito e prima di cadere l’ho appena intravisto. Ma penso sia proprio la stessa persona, lo stesso berretto giallo, quello lo ricordo bene, e poi puzzava, sapeva di cane bagnato, e anche questo ha lo stesso odoraccio. Poco fa l’ho visto di spalle, uscivo dal bagno mentre lui inforcava il corridoio. Non ho incrociato il suo sguardo per un pelo.
Le prime lacrime le scivolarono lungo le guance.
– Ho paura! – esclamò – una fifa da matti. Quelli non mi danno tregua. E pertanto, oltre a Jamal, nessuno era a conoscenza delle pietre.
Mi prese per le spalle e aggiunse:
– Quelle gemme è roba mia. È un vecchio debito che alcuni Bambara avevano con mio padre, di quando anche lui lavorava alla miniera, tanti anni fa. Ci hanno raggiunto nel deserto, quello lo hai visto, e Jamal ha dato loro in cambio dei documenti, dei passaporti gambiesi comprati al mercato nero. Li ha pagati con i suoi soldi per permettere a quella gente di sfuggire alla miseria e rifarsi una vita. Laggiù lavoravano fino a tredici, quattordici ore al giorno, come schiavi, in fondo a cunicoli malsicuri, con pochissimo ossigeno e acqua insalubre e razionata. Quelle pietre sono pulite. Non ho rubato nulla a nessuno e Jamal, lui, mi ha solo aiutato a mettere su questo mio sogno…Ora sai tutto.
– Stiamo andando via! – la rassicurai. Smettila di preoccuparti.
Gli amici erano fuori, nel parcheggio. Non avevamo nulla da temere. Saremmo schizzati via in un lampo verso il sud, laddove avremmo dovuto incontrare l’uomo delle canoe, a pochi kilometri dall’ipotetica e futura proprietà di Sawira.
– E il mio passaporto?
Lo tirai fuori.
– Eccolo. Ho ricopiato i tuoi dati sulla scheda all’accettazione e l’ho tenuto io.
– Allora hai letto il mio vero nome.
– Si, certo. Ma continuerò a chiamarti Sawira, per il momento.
– Coumba! Lo so, Non piace nemmeno a te, vero? Ma è il nome che ha scelto per me il mio vecchio.
Raccolse la borsa, mi prese sottobraccio e mi spinse verso l’uscita delle urgenze. Uno dei due barellieri che l’avevano soccorsa all’arrivo, smise di lucidarsi i denti con un bastoncino di legno e ci guardò perplesso. Feci un cenno con la mano e un sorriso stupido e raggiungemmo gli amici.
Sawira montò sulla Land, con Tonio. Il Traga ed io sulla Hyundai. Uscimmo a passo d’uomo dal parcheggio del vecchio ospedale per poi infilarci in una coda di auto strombazzanti. Nessuno dietro di noi!
° ° °
– La Casamance è un paese di foreste, di fiumi e torrenti, e poi c’è il mare, affiancato da lunghissime spiagge. Amo questo posto e nessuno mi impedirà di viverci. Guardate questa casa: è magica. Ha un’apertura sul tetto, come un imbuto, per raccogliere le acque piovane e illuminare tutto l’interno. I Diola sono dei veri architetti! Questa sarà la reception, che te ne pare?
Pronunciò queste frasi con la voce rotta dall’emozione, mentre ammirava felice la sola casa, rotonda e immensa, sul famoso terreno quasi acquisito.
Entrammo. Un odore di paglia umida pervadeva l’aria senza essere sgradevole, sembrava apportasse solo un po’ più di frescura. In alto, l’ampio varco sul tetto a impluvio riversava un enorme fascio di luce nello stanzone. Sotto, nello sprazzo assolato, un banano alzava le sue larghe foglie al cielo in attesa della prossima pioggia.
Tutto pareva addormentato, immerso in un sogno, un incantesimo appena rotto dalla voce squillante di Sawira, mentre saltellava come un grillo, girava in tondo, toccava i muri, carezzava le colonne di legno e rideva, così lontana dai tristi giorni di quel maledetto colpo in testa.
I miei due compari apparvero. Tonio, sulla porta accanto al Traga, disse:
– Dovresti restare qui con lei. Il posto è incantevole e lei è una con le palle! E anche bella, Cristo se è bella.
Ora aveva i capelli corti e tinti di biondo. Un’astuzia mimetica, disse, non si sa mai.
Erano già passati quindici giorni dal giorno in cui eravamo partiti in fretta dall’ospedale e condotto Sawira nel suo angolo di paradiso. Noi, avevamo infine percorso il fiume in piroga ed eravamo rientrati il giorno prima. Eravamo avidi di letti comodi e pranzi copiosi, poiché quel tratto d’avventura s’era rivelato più spossante degli altri e sembravamo usciti da una gragnuola di bastonate.
Fu un’escursione disorientante, in un dedalo di bracci di mare e fiume nel bel mezzo della foresta tropicale, dove mangrovie, palmeti e alberi delle calabasse si intrecciavano alti e fitti lungo le rive e sui numerosi isolotti lussureggianti invasi dalle migliaia di uccelli.
Nonostante i cappelli a tese larghe col retino anti-insetti e le camicie a maniche lunghe, le zanzare, in sibilanti attacchi senza tregua, erano riuscite a nutrirsi abbondantemente del nostro sangue zuccherino. Eravamo ancora più smagriti e con la pelle sempre più bruciata dal sole, ma anche appagati dalle novità pittoresche e esotiche e dai contatti umani con i coltivatori delle risaie o con i pescatori, che a sera ci rifocillavano alla meglio con granchi e ostriche e vino di palma. Ma gli attacchi di nostalgia cominciavano ad affiorare prepotenti e non si faceva che evocare i caffè con la macchinetta, i maritozzi con la panna e anche lasagne, pizze, e abbacchi al forno.
Ed ora eravamo lì, con lei, nei pressi di Ziguinchor, e tutto andava per il meglio.
Dopo aver visitato la proprietà, apparecchiammo un tavolo tondo di vecchie assi di legno vicino a un capanno ricoperto di buganvillee che serviva da cucina, all’ombra di un mango. Il Traga aveva ordinato frittelle, pollo e manioca con bevande varie e un tipo con la moto li stava consegnando. Sawira aggiunse un gran piatto di riso con carne e fagioli. La spanciata era pronta. Ci sedemmo in circolo con la bava alla bocca e le forchette strette in pugno come tridenti.
Ogni tanto, lo sguardo dolce e stuzzichevole di Sawira (la quale aveva già prenotato due camere per la notte nelle vicinanze) mi allontanava dal presente e proiettava nella futura notte. Se mai andrò in paradiso, mi dicevo, è così che dev’essere, con una grande donna che mi desidera, gli amici all’ombra di un mango in fiore e la promessa di una notte d’amore.
Ma era dicembre, presto a casa avrebbero decorato l’albero con tante palline e la casa avrebbe preso l’odore di aghi di abete. Così, mi sorpresi più volte a pensare al rientro e alla famiglia.
Ero combattuto, di brutto, sapevo che sarebbe stato difficile separarmi da lei e da quei luoghi, soprattutto in quel frangente, in quel gran giorno di festa.
Era una domenica. Una domenica grassa e lenta, con macchie d’unto di frittelle sulla maglietta, decine di birre fresche che uscivano dalla ghiacciaia e infinite occhiate languide. Tutto sembrava perfetto, direi persino godurioso, ma tutte le cose, ahimè, finiscono sempre per guastarsi.
Verso la fine del pomeriggio, mentre il sole arrivava all’altezza dell’orizzonte e la luna si affacciava timida fra i rami spogli, spuntò un taxi e dal taxi sbucò fuori un gigante color ebano con i bicipiti che straripavano dalla maglietta. Era madido di sudore. Si avvicinò quasi correndo, contornò l’albero e si piazzò davanti al tavolo.
Si chiamava Salomon ed era stato “reclutato” per vigilare sul campo e un sacco di altre mansioni. In effetti Sawira lo pagava perché gli guardasse le spalle, una sorta di guardia del corpo e uomo tutto fare. Prese fiato, sputò in terra e parlò.
– L’ho visto Madame. E l’ho anche seguito. Alloggia a Bignona a una trentina di kilometri a nord. È con una donna, una certa Diatou.
Rimanemmo qualche istante in silenzio poi, il Traga, che aveva capito l’andazzo prima degli altri, andò alla Land, e ritornò con la semi-automatica, la infilò nella cintola e esclamò:
– Miei cari, è ora di mettere la parola fine a questa brutta commedia!
° ° °
– Dunque, quella certa Diatou di Saint Louis et il Caro Nelson non solo si conoscono ma prendono l’albergo insieme a una mezz’ora di strada da qui. Non male come coincidenza, davvero!
Eravamo nella Land, nella parte in ombra del parcheggio di quell’hotel a Bignona, a una ventina di metri dall’entrata. Salomon davanti con il Traga ed io dietro. Tonio era rimasto con Sawira. Non si sa mai, aveva detto, qualcuno dovrà pure restare con lei.
La luna ormai alta, rischiarava a stento la Land, semi-nascosta dietro gli alberi. Il rumore di una fontana echeggiava lontano.
– Chissà se è veramente lei – provai a dire – era così premurosa con Sawira, piena di attenzioni.
– Sei proprio un pirla, Ni’! Vedrai, vedrai. Mi gioco le palle che è lei che ha orchestrato l’aggressione nel proprio albergo e che ora è sulle sue tracce. La tua amica deve ringraziare il cielo che sei arrivato al momento giusto e meno male che non ha rivelato a nessuno l’ubicazione esatta del terreno.
– Allora, molto probabilmente Nelson era a Dakar perché Diatou gli aveva suggerito di fare un giro degli ospedali. Aveva capito che Sawira aveva preso un brutto colpo e che probabilmente avrebbe avuto bisogno di consultare un vero medico, magari fare una radiografia.
– Che altro? Per me, le stanno dietro da quando si è separata da Jamal e gli altri. Nessuno avrebbe cercato di derubarla fintanto che era col gruppo. Ma quando è andata nell’albergo dalla sua amica, Nelson si è recato a Saint Louis ed ha proposto il colpo alla proprietaria, quella cazzo di Diatou.
– Eccoli! – fece Salomon – sono arrivati, quello è il furgone.
Erano proprio loro, Nelson e Diatou Béye, la bella Wolof dagli occhi grigi. Indossava un abito lungo variopinto e un copricapo in tono col vestito da cui uscivano le lunghe treccine afro. Portava un sacco a bandoliera e un bottiglia di alcol in una mano.
C’era un’altra persona, un piccoletto bianco dall’aria non troppo felice. Si separò da loro e venne verso di noi, senza vederci. Si avvicinò a un vecchio cabriolet inglese, esitò diversi secondi con la mano sulla maniglia quindi, quasi urlando, sbottò:
– Vi do al massimo due giorni, poi rientro a Dakar e delle vostre pietre non se ne parla più. Ho di meglio da fare che inseguire fantasmi, io!
– Basteranno – disse di rimando Diatou – Fra due giorni qui, all’ora dell’aperitivo, come stasera.
Quindi si avviò verso l’entrata dell’hotel mentre Nelson restò accanto al furgone armeggiando con un mazzo di chiavi. Il piccoletto fece un’alzata di spalle, montò in auto, avviò il motore, dette una sgassata e sparì nella notte.
– È il momento buono – bisbigliò il Traga – tu vai da lei e impediscile di rientrare in albergo. E tu Salomon vieni con me, dai!
Con due o tre balzi il Traga fu alle spalle di Nelson. Lo girò di forza, gli mollò un potente destro al plesso solare e gli intimò di sedersi in terra, l’arma nella mano sinistra puntata sulla fronte del Mauritano. Quindi gli infilò uno fazzoletto fra i denti e sussurrò qualcosa di impercepibile.
Fu tutto quello che vidi, mi girai e presi a camminare svelto per raggiungere Diatou prima che arrivasse nella zona illuminata. Seguii quel suo bel didietro tondo e sporgente che ondulava incerto sotto le stelle. Quando la raggiunsi, era già vicino alle scale che conducevano alla reception.
– Come va? – la interpellai trafelato – È da un po’ che non ci si vede.
Trasalì. Aveva un odore fresco di sapone misto a sudore e alcol.
– Beh! Che sorpresa. Non mi dire che sei in questo albergo.
Mi arrivò il fiato acido della bevuta.
– In effetti no, sono venuto per te, per vedere un po’ come butta, a che punto sei con questa tua caccia al tesoro.
Si girò verso l’auto, cercando Nelson con lo sguardo.
– Non capisco – disse – di che tesoro stai parlando?
Allungò la mano libera verso la borsa. La mia mano scattò come un lampo e la bloccò.
– Ascolta. La partita è finita. Ora ve ne andate tu e quel figlio di puttana del tuo amico. Rientra nel tuo cazzo di hotel e scordati Sawira e tutto il resto.
Il labbro inferiore cominciò a tremolargli. Si girò di nuovo verso il furgone, ma Nelson non arrivava. Io, in cuor mio, pregai il cielo che il Traga non stesse facendo cazzate. Conoscevo bene il suo autocontrollo, sapevo che non ci avrebbe messo in guai troppo seri, ma quantomeno…
Avevo ancora la mia mano su quella di lei. La liberò con un gesto di stizza, aprì la bottiglia e ingollò una lunga sorsata. Era un alcol bianco e spesso.
– Il mio hotel è in fallimento – sostenne – affitto anche le camere a delle ragazze per i loro incontri con i clienti. Sono indebitata fino all’osso e non riesco a venirne fuori. Quando Nelson me lo ha proposto ci ho pensato tutto il giorno, poiché al solo pensiero di tradire un’amica mi veniva il voltastomaco ma, devi credermi, non avevo alternative. E poi, pensavo che si sarebbe trattato di un semplice furto. Purtroppo, lei è rientrata prima del previsto e quel grosso imbecille gli ha assestato una brutta botta in testa.
– Si, però gironzoli sempre nei paraggi nella speranza di ritrovarla. E per che fare? Un’altra mazzata prima di rapinarla? Comunque, le pietre non ci sono più, già date via, trasformate in bigliettoni e i bigliettoni sono stati spesi. È una brutta situazione per te, e non cercare di peggiorartela poiché a giorni arriva Jamal con un po’ di amici (mentii!). Credo che per voi sia meglio sparire dalla zona.
In quel mentre spuntarono fuori il Traga e Salomon. Nelson non c’era. Lo interrogai con lo sguardo. Preoccupato, molto preoccupato. Con un’arma carica bisogna sempre essere pronti al peggio ed io non lo ero.
– Non ti far sangue amaro – parve leggermi nel pensiero – Sta solo cercando di togliersi la merda dalle mutande. Si è cacato sotto, pur de bon! Credo che fra un minuto o due partirà e non sentiremo più parlare di lui. E tu? – disse rivolto alla donna – Ci sei dentro fino al collo, è così?
Ora Diatou aveva gli occhi piegati verso il basso, stanchi e supplichevoli. Non fiatò, non provò a dire nulla. Tirò di nuovo il tappo e buttò giù il fondo della bottiglia.
– Il vostro amico è pazzo – disse Salomon – per un attimo ho creduto che lo avrebbe seccato.
Sudava copiosamente, era un uomo pesante che sprizzava malizia, sudore e malizia. Aveva gli occhi piccoli dei furbetti, abbastanza vicini al naso. Diatou gli dette una guardata, dal basso verso l’alto, poiché il colosso era impressionante e raggiungeva sicuramente i due metri.
Intanto il furgone di Nelson accese i fari, percorse un vialetto sterrato e scivolò fuori dal parcheggio mentre due donne anziane piene di risatine uscivano da un taxi ed entravano nell’albergo.
Era ora di andare. Insistere non sarebbe servito a nulla. Salomon, puntò un indice accusatore contro Diatou e sibilò fra i denti:
– Tieniti alla larga da madame Coumba. E non è un consiglio, dico sul serio! Fa che ti becchi soltanto a guardarla e ti aggiusto per le feste, te ne darò tante che te ne ricorderai per tutta la vita.
L’”operazione” era stata rapida ed efficace e non era il caso di aggiungere altro. Prima di girarle le spalle, mi rivenne in mente lo sguardo fiero e torvo del nostro primo incontro nell’atrio del suo albergo. Ora trovai quegli occhi tremendamente normali; la piccolezza li stava rendendo scialbi e banali.
La piantammo in asso così, come si lascia sul ciglio del viottolo un bellissimo fungo velenoso.
° ° °
Passò del tempo, per l’esattezza due anni. L’occidente giunse al Natale seguente e poi a quello successivo senza aver risolto nulla dei suoi casini, continuando a far guerre, sfruttare i poveri cristi e scaricare le sue immondizie ai quattro angoli della terra.
Le famiglie erano in fermento, in particolar modo le nostre, cattoliche e munifiche, pronte a indebitarsi per un Natale dignitoso.
Rientravo da un corto fine settimana in Maremma con Tonio e altri amici di quartiere. Roma era più che indaffarata. Tutti correvano sotto un tiepido sole d’inverno in quel giorno di vigilia.
Avevo corso in macchina per non rientrare troppo tardi, poiché i preparativi del veglione a casa mia cominciavano nel primo pomeriggio ed io ero solito aiutare mia madre con gli ultimi addobbi ma anche a pelar zucchine, patate, carciofi, mele.
Entrai in casa con dei pacchetti sotto le braccia e li posai sotto l’albero che già lampeggiava a intermittenza. C’era odore di frittelle di verdure e ricotta. Passai in cucina a curiosare. Mia madre disse: c’è una grossa lettera per te. Ha tutta l’aria di venire da lontano. Guarda sul frigo.
Più che una lettera era un plico marrone con l’immagine di uno squalo sui francobolli. All’interno una pagina scritta, un opuscolo del villaggio, Le Coumba, le foto delle nuove capanne col tetto in paglia e un’immagine di Sawira. I suoi capelli erano cresciuti e aveva il pancione.
Incinta di chi? Mi chiesi, mentre mi saliva in testa una vampata incoerente di gelosia. Andai in salone. La tavola era piena di frutta secca, nocciole, castagne, mandorle, prugne, arachidi. Mi versai un bicchiere di Olevano dolce. Presi una manciata di noccioline, mi accomodai sul divano, trangugiai il vino e iniziai a leggere.
Caro Nino,
la tristezza che mi ha provocato la tua partenza è stata senz’altro una delle più penose della mia vita, ma poi, quando hai risposto alla mia prima lettera dicendomi che saresti tornato qui da me la primavera successiva, il dispiacere è svanito lasciando il posto a una leggera ma dolce malinconia, e ciò mi ha permesso di continuare ad avanzare malgrado tutto e organizzare il mio villaggio. Ma tu non sei venuto, né allora e né dopo, ed io mi sono sentita sola, terribilmente sola e Salomon era lì, fedele e (come ha poi confessato un giorno) molto innamorato di me. Così, stiamo insieme. È un uomo buono e premuroso. Lavora per me e in più ha comprato un furgoncino e organizza escursioni con i nostri clienti ma anche con altri alberghi della regione. È un gran lavoratore e tutti gli vogliono bene e oggi anch’io.
Quello che conta sono le piccole cose, come svegliarsi insieme la mattina, per esempio, o quando hai bisogno che qualcuno ti stringa nelle braccia e che quel qualcuno è sempre lì, pronto ad allargarle e farti un posticino caldo al riparo di tutto. Io la penso così.
Volevo solo dirti che per un po’ ho creduto possibile questa nostra storia. Beh, non lo è stato. Ti ho amato, questo devi saperlo, però dovevo smetterla di pensarti, dovevo smetterla di pensare in generale. Dovevo farlo Nì, come senz’altro hai già fatto tu, vero?
Spero tu viva felicemente e che nulla oscuri il cammino della tua vita.
Abbiamo vissuto una bella avventura, con tanta tenerezza, Sawira.
Squillò il telefono. Presi una prugna secca dal tavolo, cominciai a spolparla e risposi. Era il Traga.
– Non ti chiamo soltanto per gli auguri Nì, ho buone notizie. Ho trovato il camion. È in Svizzera, il tipo che lo vende è appena rientrato dalla Tanzania. Costa poco, una vera occasione. Vendiamo la Land e ci compriamo ‘sta bestia, così avremo un Truck perfettamente equipaggiato, con 4 posti letto, cucina da campo, generatore e tutto quello che serve per affrontare il prossimo viaggio. Vedessi le foto, anzi te le mando. Sembra nuovo, di un bel color cachi, con i fari di ricerca sul tetto, altro che camper! Ehi, si va di nuovo in Senegal, vero? E poi a est, nel Mali. Bamako, Timbuctu, come avevamo detto. Questa volta andiamo a dare un’occhiata intorno a quelle miniere, ha, ha, chissà che non troviamo un affaruccio anche noi.
Mi versai un secondo bicchiere e lo mandai giù di un fiato. Deglutii e insieme al vino ingoiai il nocciolo della prugna. Ne seguii il tragitto mentre scendeva giù a stento, graffiandomi la gola.
– Non ci voglio andare più in Senegal…
– Cos’è successo? Non vuoi più raggiungere la tua bella?
– Troppo tardi Trag, non mi aspetta più. Ho fatto passare troppo tempo, pare…
– Santiddio! Si è dovuto lavorare, mettere via un po’ di soldi e poi un viaggione così va preparato.
– Lo so.
– Insomma, pensi che non ci sia più niente da fare?
– Non lo penso, ne sono sicuro.
– Ehi, ma il Truck lo compriamo lo stesso, vero?
– Mhmm, magari, vedremo… E la pietra me l’hai venduta?
– Certo. Ti ho chiamato anche per questo.
– Dai, spara! Quanto ne hai ricavato?
– Sei testoni Ni’, tondi tondi.
Sei milioni di lire erano molto più di quello che mi aspettavo. Avrei detto solo la metà perché in fondo la pietra era piccolina. Glielo dissi.
– È vero che aveva una caratura modesta, ma era trasparente, nessuna traccia di colore, nessuna inclusione. Ne hanno tirato fuori un brillante di una grande purezza. La tua amica ti ha trattato con i guanti.
Guardai fuori, mentre il Traga aveva ripreso a parlare del camion.
Mi piacque pensare che Sawira in quello stesso istante stesse alzando anche lei lo sguardo sul medesimo cielo. Ero quasi ubriaco e mi sentii decisamente stronzo per non aver fatto un’andata e ritorno in aereo, almeno una volta. Noi coglioni, si pensa sempre che il mondo giri intorno al nostro ombelico, che presunzione!
Lo sguardo ruotò e si posò sulla biblioteca. Avevo messo in bella mostra il libro di Zacarias e più in là, sul muro e in un unico riquadro, le foto incorniciate del viaggio: il Chiquita, la stazione e il mercato di Nouadhibou, il Traga col turbante rosso, le capre che si affannavano intorno alle ultime foglie di quell’unico alberello nel cuore del deserto, la piccola oasi di Akjouit, Tonio che pagaiava sul fiume e, al centro, in mezzo a quelle immagini, una foto degli occhi di Sawira, solo gli occhi.
Mi penetrarono dentro e rimontarono lungo i nervi e le vene, passando per il petto e poi su fino all’ugola e la lingua, pronti a sfociare in un grido di rabbia, un grido che riuscii a soffocare solo a metà, lasciando fuoriuscire un gemito rauco e impersonale, come il rumore di una grattugia trita ghiaccio, mentre il Traga stava precisando che avremmo dovuto recarci a Ginevra dopo le feste, per recuperare l’automezzo e che bisognava mandare un acconto subito per bloccarlo.
- Alura, d’accordo così?
- Cristo Trag, lasciami riflettere.
Fissai di nuovo quell’immagine.
Dietro quello sguardo dal riflesso forte e ammaliante, potevi immaginare mille storie. Pensai, un giorno scriverò di lei, quando non avrò altro da fare, embè, scriverò qualcosa sulla splendida carovaniera di Timbuctu, così, tanto per non morire con questa pena, con questo peso addosso, il peso di un cielo di un fantastico blu, il mitico blu del nostro caro inferno.
Allora sorrisi e dissi:
- D’accordo Trag! Si parte!