Blu Inferno (parte 5)

(parte quinta)

Chi evita l’errore, elude la vita  

Jung

Salii le scale a due a due, nonostante il borsone in spalla, la calura pomeridiana e lo stomaco vuoto. Spuntai su un ballatoio di legno lucido e odorante di cera che portava alle camere.

Un omone corpulento di colore, canotta nera e berretto giallo calato sulla fronte, mi superò, si girò, mi squadrò da cima a fondo e, quasi correndo, prese una scalinata che sporgeva sull’esterno dell’edificio. Prima di inforcare le scale mi fulminò con un’occhiataccia, avrei detto di disprezzo.

Arrivai davanti alla stanza 18, al secondo piano dell’hotel Gorè, a Saint Louis.

Picchiai alla porta, abbastanza eccitato, danzando nervosamente sulla punta dei piedi.

Nessuna risposta.

Mi asciugai la fronte dal sudore, ravviai i capelli e bussai di nuovo, un po’ più forte. Pazientai qualche secondo e cercai di prendere un’aria più o meno disinvolta.

Questa volta, udii qualcosa. Avvicinai l’orecchio alla porta e origliai: era una specie di lamento, un piagnucolio. Girai la maniglia ed entrai. La stanza era nell’oscurità. Seduta sulla sponda del letto, Sawira, con un asciugamano premuto sulla testa, mi guardò con occhi sbigottiti.

– Nino! – esclamò – Oddio, sei tu? –

Si alzò ma non mi venne incontro.

– Sawira, che ti è successo?

– Sono appena rientrata e c’era qualcuno dietro la porta. Mi ha colpito ed è fuggito via. Tutto s’è fatto buio ed ho quasi perso i sensi, anzi, per un attimo li ho persi.

Scansai le tende e aprii la finestra. Il cielo era maledettamente chiaro e il sole picchiava con forza. Non una nuvola, non un briciolo di vento. Avevo bisogno d’aria, di spazio, d’acqua fresca, di un gran gelato al limone. Il caldo, umido e afoso, non mi aveva dato tregua durante il lungo tragitto ed ora mi stava assestando il colpo di grazia. 

Inalai una boccata d’aria tiepida e mi feci coraggio.

– Dai qui – dissi sollevando l’asciugamano – Fai vedere.

Il sangue aveva iniziato a raggrumare intorno ai capelli e non si vedeva bene la ferita. Andammo in bagno. Lei mise la testa sotto il soffione e lasciò scorrere l’acqua. Il piatto doccia si arrossò leggermente.

– Devo avere un aspetto terribile – disse, quindi s’infilò tutta vestita sotto una debole pioggerellina giallognola. Solo allora mi resi conto che portava lo stesso abito zafferano che aveva indossato nella mia stanza, a Nouakchott.

– Spegni la luce – aggiunse, mentre lasciava cadere in terra il vestito – Ho male agli occhi.

Premetti l’interruttore, uscii e socchiusi la porta.

Detti uno sguardo alla stanza. Era piccola ed eccessivamente colorata di azzurro e di giallo. Il copriletto, le tende, i comodini, un po’tutto.

Accesi una sigaretta e mi avvicinai alla finestra. In lontananza si intravedeva il famoso ponte sul mare, quello di Eiffel.

Dal cortile, un forte odore di pollo abbrustolito m’arrivò alle narici. Avevo fame, una bella fame arretrata. Finii la sigaretta e, per ingannare lo stomaco, ne accesi un’altra. Avevo le gambe molli e tutta l’eccitazione accumulata durante i trecento kilometri di viaggio era andata a farsi fottere. Mi ci voleva una doccia e un piatto pieno di carne arrostita con vari contorni, oppure i suoi baci. Anzi l’uno e l’altro.

Quando uscì dal bagno, si avvicinò e mi strinse prendendomi dalle spalle.   

– Va meglio – disse – non è nulla di grave.

Mi girai. Aveva una maglietta lunga fino al ginocchio e una salvietta intorno al collo. 

Scostai i capelli ed esaminai la ferita. Un bel taglio in pieno centro del cranio che aveva lacerato il cuoio capelluto.

– La ferita è piccola – la rassicurai – ma se hai perso conoscenza sarebbe meglio andare all’ospedale. Distenditi, vado a cercarti del ghiaccio. Poi si vedrà.

Posò l’asciugamano sul cuscino e si allungò sul letto scoprendo inavvertitamente cosce e ventre. Restai uno o due secondi impalato poi filai via. Sulla porta mi voltai di nuovo.

Nella hall, ritrovai la sua amica, Diatou Béye, la padrona, una stupenda Wolof con le treccine afro, profumate all’olio di cocco, e gli occhi d’un insolito grigio chiaro, messi in risalto da un carico ombretto azzurro. Mi dette un secchiello di ghiaccioli e delle compresse di garza.

– Suppongo che lei sia il flirt che stava aspettando. Onestamente, non mi aspettavo proprio qualcuno come lei…Bah! Adesso corro in ospedale. Un mio amico infermiere finisce il turno fra una mezz’ora. Lo porto qui, il tempo di andare e tornare.

La seguii fino alla porta. Aveva un bel posteriore tondeggiante che sapeva oscillare sapientemente. Sulla soglia mi fissò con quegli occhi pallidi e perlacei, quasi minacciosi, aggiungendo su un tono particolarmente stizzoso:

– Merda! Questo è un affare per il commissariato. Non va per niente bene e, come se non bastasse, proprio nella camera accanto alle ragazze. Bisognerà farle sloggiare!

Che ragazze? Dove cavolo ero andato ancora a ficcarmi? Ripensai alle parole di Tonio e del Traga e un leggero senso di angoscia provò a destabilizzarmi, ma inutilmente, la rividi seminuda sul letto e l’ansia svanì.

Quando risalii nella camera, aveva messo di nuovo gli scuri e s’era infilata sotto le lenzuola. Mi lanciò la maglietta appallottolata e aprì le braccia. 

°  °  °

Circa un’ora dopo, l’infermiere, un anziano Diola in bermuda e infradito, con valigetta e tanto di stetoscopio appeso al collo, varcò la porta seguito da Diatou.

– Siamo qui, ma chérie – disse lei, avvicinandosi e prendendole le mani – Ecco Ousmane. È un amico, puoi stare tranquilla. Se c’è da ricucire, ha portato qualcosa per l’anestesia locale.

Sawira aveva rimesso la maglietta e annodato l’asciugamano in vita. La trovai irresistibile, terribilmente sexy, e mi venne da pensare con tristezza che prima o poi le nostre strade si sarebbero separate, inevitabilmente. Ma il tarlo del dubbio stava già mordicchiando là dove non me l’aspettavo e i primi perché vennero in superfice.

Che ci facevo lì? Cos’ero venuto a cercare? Perché tanto affanno per qualcosa di logicamente effimero e fuggitivo? Attratto dall’improbabile, dall’inarrivabile, dalla magia di quello sguardo nero e misterioso, capii che stavo rischiando di perdermi

D’un tratto, mi accorsi che mi stava osservando, le sopracciglia leggermente corrugate e gli occhi lucidi, pronti a versare lacrime. Pensai, cattivamente e senza un vero perché, che doveva sicuramente avere un’idea precisa sull’aggressione appena subita.

Prima di sedersi, disse:

– Non mi hai ancora detto cosa ci fai qui e, soprattutto, quanto hai intenzione di fermarti.

Diatou rise di cuore poi si posò accanto a lei. Ousmane esaminò il taglio e, dopo averlo disinfettato, diradò e tagliò un ciuffetto di capelli e applicò un semplice cerotto.

– Più lo spavento che il danno – affermò – Gonfierà un po’ ed è tutto. Ti lascio qualche analgesico.

Sawira rispose con un’alzata di spalle mentre Ousmane frugava nella valigetta.

– Stasera Maffé di pollo – esordì Diatou – Invito io. È la donna di servizio che sta cucinando. Il tuo amichetto si leccherà i baffi.

Dopo una lunghissima doccia e un sonnellino riparatore tirai fuori una polo pulita e un bermuda leggero e mi preparai per la serata. 

Allo specchio osservai le braccia secche e annerite dal sole, gli occhi leggermente incavati e un bell’ammasso di stoppa al posto dei capelli.  

Raggiungemmo Diatou nell’atrio. Ci dette la chiave di una nuova stanza che la cameriera aveva appena finito di rassettare e ci rassicurò dicendo che avrebbe chiuso la porta dell’hotel e l’accesso alle scale di servizio.

– Ho solo due camere occupate e i clienti sono tutti dentro. Possiamo dare un giro di chiave.

Cenammo a lume di candela, nel cortiletto fiorito dell’hotel.

Il pollo al burro di arachidi fu una leccornia e il vino, due bottiglie di un Manchuela bianco, rese ancora più allegra la serata.

Presto divenni brillo, come le due donne che ridacchiavano per conto loro, divagando e continuando a lanciare battutine spinte. Diatou, più che disinvolta, parlava apertamente di sesso, lanciava occhiatine provocatorie e di tanto in tanto mi dava delle pacche sulle ginocchia.

“Che dici?” – faceva – “Non può fare poi così male, no?” Oppure…”Il sesso deve essere divertente e crudo, che ne pensi?”.

A volte le loro voci si allontanavano e mi perdevo nelle mie fantasticherie, a causa del vino certo, pensando agli amici o al proseguimento del viaggio.

Per tacito consentimento, nessuno fece la benché minima allusione al colpo in testa di Sawira, nessuna domanda imbarazzante. Trovai molto strano che Diatou non chiedesse nulla alla sua amica e che tutto sembrava scontato.

Le cose stavano comunque andando per il verso giusto. In alto, una gran luna attraversò il quadrato di cielo sul cortile.

D’un tratto Sawira parve ricordarsi di me e mi toccò un braccio.

– Cristo santo! Nino, ma non apri bocca? Non hai un cazzo da raccontare, sul serio?

Aveva bevuto anche lei, forse più del dovuto.

– Stavo fumando e assaporando il vino – obiettai – Mi piace stare ad ascoltarvi. Per il momento, non domando altro.

Scosse la testa e alzò le spalle mentre Diatou si alzava per rispondere al telefono.

– Abbiamo molto da dirci noi due, vero?

– Si, però adesso non diventare seria. Abbiamo tempo. Godiamoci la serata.

Aveva indossato delle espadrillas bianche e un vestitino color menta scollato, proprio carino, con un nastro fra i capelli dello stesso colore.

– Domani devo prendere una nave – disse – e tu dovresti venire con me, anche perché parte da Dakar e arriva a Ziguinchor. Non è là che devi raggiungere i tuoi amici per la tua spedizione in canoa?

Fui preso alla sprovvista, dissi:

– In effetti è così. Ma tu che ci vai a fare in Casamance?

Riempì i bicchieri di vino senza staccare gli occhi dai miei. Bevve una bella sorsata prima di rispondere.

– Ho pensato che a te posso dirlo. Non so bene perché, ma in te ho fiducia. Poca gente ne è a conoscenza, Jamal, naturalmente, poiché è lui che lo ha trovato, la mia famiglia e adesso tu. Ho un progetto, qualcosa di solido. Sto per comprare un gran terreno a due passi dal mare. È un vecchio accampamento circondato da buganvillee, a pochi kilometri da Ziguinchor. C’è una grande casa tradizionale col tetto di paglia e anche il blocco sanitario. Finite le sfacchinate nel deserto, le piste, la polvere. È giunta l’ora ch’io mi prenda carico di un mio vecchio sogno.

– Un villaggio turistico?

– Qualcosa del genere.

Mi prudeva la lingua dalla voglia di chiederle se quei diamanti non avrebbero dovuto servire a questo suo gran progetto e, più che altro, se era una roba pulita, ma la tenni chiusa, pensando che le cose sarebbero venute a galla da sole e che per ora non c’era bisogno di approfondire.

– Allora? – chiese – Si fa la strada insieme?

Alzai il bicchiere e dissi:

– Sai cosa c’è di più bello a questo mondo?

– Dai, dimmi, sono tutta orecchie.

– È sentirsi come all’inizio della propria vita. Ed è questa l’impressione che ho avuto poco fa, su in stanza.

– E allora?

– Allora va bene, ti accompagno a Ziguinchor.

– Ha, ha – ridacchiò – Sono contenta – poi ridivenne seria e, prendendo un’aria corrucciata, aggiunse: – Non provare a mettermelo Nino eh? Non tu, te ne prego !

°   °   °

Sembrò che non fosse passata nemmeno un’ora da quando ero riuscito ad addormentarmi, invece erano le sei di mattina e Sawira mi stava scrollando per le spalle.

– Giovanotto – disse – bisogna andare.

Nella penombra, intravidi un gran groviglio di boccoli che le scendevano sulle spalle

– Scusa, ma quando hai trovato il tempo di aggiustarti i capelli così?

Andò alla finestra e aprì le persiane. La luce entrò e la illuminò, mentre il muezzin lanciava, attraverso i potenti altoparlanti della moschea, la prima litania del mattino. 

– Mi sono alzata due ore fa. In effetti ci ho messo un po’, ma ora sono pronta. Mi manca solo un foulard per nascondere il viso, un’ultima precauzione dopo l’incidente di ieri.

– E tu lo chiami incidente?

Mi ero ripromesso di non toccare quel tasto ma mi era scappato. Lei non rispose, allora continuai facendo finta di niente. Le chiesi come andava la ferita e se voleva che le cambiassi il cerotto.

– Già fatto. È solo indolenzito. Domani non ci sarà più nulla. Dai sbrighiamoci, abbiamo almeno quattro ore di macchina fino a Dakar. E poi il mare, ci imbarchiamo per Ziguinchor.

Mi piaceva con tutti quei riccioli. Le chiesi se potevo farle una foto.

– Se riesci a farmela mentre mi muovo – rispose.

Tirai fuori la Nikon e scattai due o tre foto mentre infilava una marea di cose nella valigia.

Mi vestii in fretta, pantaloni corti e camicia larga, beninteso stropicciata.  Sawira aveva inforcato un paio di occhiali da sole e avvolto la testa con uno scialle che le copriva anche metà del volto.

Diatou aveva messo appositamente la sveglia per salutarci. Fece un sacco di raccomandazioni alla sua amica e, dopo aver buttato giù due tazze di caffè nero, ci accompagnò alla porta e ci abbracciò affettuosamente.

Appena fuori notai, a una ventina di metri dall’hotel, una enorme Lincoln nera che stava manovrando con fatica per parcheggiarsi. Era presto e non c’era gran mondo in giro. Al volante, l’uomo che mi aveva guardato di traverso sul ballatoio dell’hotel, tutto preso a infilarsi nello spazio esiguo fra due auto in sosta. Non ci vide.

Sawira seguì il mio sguardo e subito mi chiese di accelerare il passo e svoltare in una via traversa. Arrivammo nella piazza dove sostavano le corriere e i taxi-brousse, lei contrattò il prezzo del viaggio per non avere altri passeggeri a bordo e salimmo su un furgoncino, un otto posti tutto per noi.

 – Speriamo che si dia una mossa – brontolò – Tanto è solo per pochi kilometri, poi cambiamo auto.

Venti secondi dopo eravamo già in viaggio. L’automezzo filò veloce sulla strada ancora poco trafficata, delimitata a tratti dai primi giganteschi baobab.

Dopo una mezz’ora traversammo un gran villaggio. Sawira indicò all’autista una stradina traversa e poi un’officina, laddove, seppi poi, due dei conducenti della carovana avevano condotto precedentemente le auto da rimettere a posto.

Il meccanico stava appena aprendo. Riconobbe Sawira e ci venne incontro con un gran sorriso.

– La sua auto è pronta – disse – le altre due le cominciamo oggi, ieri ho ricevuto i pezzi. Fra due giorni, quando Jamal passerà di qua, saranno come nuove.

Sawira pagò e salutò l’autista.

Prendemmo i bagagli e li infilammo in una vecchia Hyundai grigia, coupé, parcheggiata davanti all’officina.

– Questa è la mia – affermò con orgoglio – piccola e un po’ rumorosa ma è la mia!

Decisamente quella donna non smetteva di stupirmi. Ogni giorno ce n’era una nuova. Bevemmo un tè servitoci dalla moglie del meccanico, caricammo i bagagli nella Hyundai e partimmo all’istante.

Appena fuori dal villaggio, si fermò in una stazione di servizio. Fece il pieno e mi chiese di prendere il volante.

Si appisolò quasi subito, mentre io mi godevo pigramente il paesaggio, prendendo il tempo di osservare tutto e tutti, approfittando di quell’atmosfera avventurosa in cui m’ero ritrovato, o forse intrufolato.

Spesso, mi giravo e la guardavo. La trovavo ancora più misteriosa con quel foulard che le copriva gran parte del viso e gli occhiali scuri. Chi ti corre dietro? Cosa stai fuggendo? Chi sei? Mi domandavo, poi tornavo con gli occhi sulla strada, a volte distratto dai volteggi di falchi dal rostro giallo o ancora di alcuni strambi uccelli bianchi e neri, che andavano ad appollaiarsi sui rami delle acacie.

Col trascorrere dei kilometri, il verde si intensificò e arrivarono i primi campi coltivati, le mimose, i carrubi, le altissime piante di cola con fiori bianchi e lillà attaccati al tronco e in ultimo le palme. A differenza della Mauritania, quella terra, anch’essa incastonata tra l’oceano e il deserto, esibiva i suoi colori vivaci, la sua vitalità allegra e sfaccendata, tipicamente africana. La vita scorreva lenta, tinteggiandosi di terre rosse e, finalmente, di erba!

Più in là, la strada cominciò a ingombrarsi di camion, pulmini multicolore, furgoncini rattoppati e stipati a morte che fungevano da taxi, motorette cariche davanti e didietro, biciclette e animali: ci si stava avvicinando a una cittadina importante. Ogni due, tre kilometri la fila d’automezzi rallentava a causa di lavori di bitumazione della carreggiata e allora si procedeva a due all’ora, respirando i fumi ammorbanti dell’asfalto caldo. Il sole di mezzogiorno dardeggiava impassibile, infuocando i tettucci delle auto e i crani di ogni povero diavolo costretto a guidare, correre o pedalare sulla strada fumante.

A circa un paio d’ore di viaggio da Dakar mi accostai sul ciglio della strada. Eravamo giunti a Kébémer, una cittadina a pochi kilometri dal mare.

Sawira aprì gli occhi. Nonostante avesse dormito confessò di sentirsi stanca e giù di corda.

– Bisognerà rifocillarsi – disse – altrimenti svengo.

Pensavo la stessa cosa. D’altronde avevo appena visto un cartello che indicava un ristorante. Glielo dissi.

– Lascia fare me – continuò – andiamo a mangiare del pesce appena pescato, fanno il couscous di miglio con l’orata. Ti piace il polpo? Lo preparano in tutti i modi.

Aprì la portiera e scese dall’auto per prendere il mio posto al volante. La vidi vacillare e poi poggiarsi sul tettino. Era pallida e malsicura.

– Che c’è? – chiesi – Non ti senti bene?

Esitò un istante prima di rispondere.

– Mi gira la testa. Deve essere la botta, credo…

– Cristo. Penso che l’abbiamo presa un po’ troppo sottogamba. È stata una stronzata partire così su due piedi, senza nemmeno una radiografia. Sai che si fa? Ingoiamo un boccone al volo e se non va meglio cerchiamo un dottore. Ho visto che più in là c’è un centro medico.

Aveva l’aria affranta, irriconoscibile. Si tolse gli occhiali e si guardò intorno.

– Non riesco a vedere bene. Forse è la mancanza di zuccheri…

Ridacchiò stranamente e si asciugò il sudore delle mani lungo i fianchi.

– Forza, continuo a guidare – feci e mi rimisi al volante.

– Sei troppo ansioso, vedrai che non è nulla. Ho avuto di peggio.

– No comment – rimbeccai – adesso proviamo a mettere qualcosa nello stomaco e se non cambia nulla ti fai visitare, e questa volta niente infermieri. Un buon medico, ecco cosa ci vuole.

Approdammo in un ristorantino un po’ decentrato, in una piazzuola di terriccio ocra attorniata da amaranti fioriti. Alcuni maiali neri grufolavano all’ombra degli alberi.

Non c’era quasi nessuno e i pochi clienti mangiavano in terrazza. Sawira insistette perché ci sedessimo dentro, lontano dal puzzo dei maiali. 

Ci servirono polpo e miglio con salsa piccante ma lei non toccò quasi nulla. La costrinsi a bere acqua e anche un po’ di tè. Quando mi disse che aveva un fastidioso formicolio alle gambe, decisi di interrompere la pausa pranzo.

Eravamo ben distanti dalla capitale. Trovai più prudente fermarmi al dispensario locale e incontrare un medico. Sawira, cocciuta come un mulo, continuò a sottovalutare quei maledetti segnali di peggioramento.

– Sono un po’ sottosopra – reagì – è vero! Ma dire che sono in pericolo di vita, mi sembra eccessivo.

Parcheggiammo poco lontano dal dispensario e camminammo in silenzio fino all’entrata deserta e assolata.

All’accettazione, una piccolotta con un panno tradizionale legato sotto il petto, prese nome e cognome di Sawira e si recò immediatamente in una stanza in fondo al corridoio.

Un tipo in blusa bianca si presentò qualche minuto dopo. Aveva un bel viso aperto e sfoggiava un pizzetto bianco che spiccava sulla pelle nera.

– Mi hanno detto che è un’emergenza, ma non vedo sangue – fece sghignazzando – Ha, ha, era solo una battuta per allentare la tensione.

Sawira mi guardò allarmata – Non mi lasciare sola! – piagnucolò. Aveva i tratti tirati e sudava copiosamente. Le strinsi la mano pensando che le cose stavano sicuramente peggiorando.

Il medico l’aiutò a allungarsi sulla barella e la sospinse fino a una camera adiacente. Sulla porta si voltò, rise di nuovo e disse:

– Penso che lei non sia della famiglia, ha ha, ma entri pure, la prego.

Fu una visita lampo. In primo luogo, le fece qualche domanda sui sintomi: vertigini, nausea, sonnolenza e entità dell’emicrania. Quindi le chiese di abbassare le palpebre, gli puntò la luce della lampada tascabile sugli occhi chiusi e glieli fece riaprire.

– Le pupille – ci spiegò – una volta riaperti gli occhi, devono restringersi immediatamente e in modo regolare, descrivendo un cerchio durante la chiusura. Nel suo caso, il cerchio diventa ovale e non è buon segno. Le conseguenze di una commozione non curata possono essere gravi. Allo stato attuale, vi consiglio di arrivare a Dakar dove c’è un centro di radiologia e anche un neurologo. Ora telefono all’ospedale militare e li avviso del vostro imminente arrivo.

Sulla porta aggiunse, rivolgendosi a me:

– Non perda tempo e, in auto, le metta un foulard sugli occhi. L’ideale sarebbe riposo a letto e penombra ma per il momento, ritengo necessaria una visita specialistica ed un’eventuale lastra.

In tutto quel tempo, Sawira non aprì bocca. Una volta in macchina, osservò la propria immagine nello specchietto dell’aletta parasole.

– Ma dai, non vado male fino a questo punto! – esclamò.

– Ascolta, ti sia ben chiara una cosa, non ho nessuna intenzione di lasciarti in questo stato. Per me equivarrebbe ad abbandonarti. Quindi resterò con te fino a quando sarà necessario.

Mi baciò sulla guancia, mi prese la mano e la posò sul suo ventre quindi mi confidò che s’era legata una fascia intorno alla vita, sotto il vestito, una larga cintura nella quale aveva nascosto qualche banconota e alcune “pietruzze” come quella che mi aveva lasciato a Nouakchott e che, semmai avessero voluto trattenerla in ospedale, avrei dovuto tenere bene al sicuro il suo tesoro.

– Sono convinta che ti manda il cielo – bisbigliò appena – Credo proprio che in questo frangente, io abbia bisogno di qualcuno accanto…Sai, a parte la botta in testa, ho passato dei momenti formidabili. Je t’en remercie!

Avviai il coupé e mi infilai nell’ingorgo della nazionale. Lei tirò giù il sedile e si allungò, poi, improvvisamente, si alzò il vestito, slacciò la cintura dalla vita e me la passò.

– Ti consegno la mia vita – fece – Quando arriviamo prendi un buon hotel e guarda se hanno una cassetta di sicurezza. Insomma, fai come puoi, ora sono nelle tue mani.

– D’accordo – risposi – ma non esagerare, non hai motivo di preoccuparti. Può darsi che in ospedale non ti trattengano.

– Dentro ci sono anche un po’ di soldi – continuò – Se ne hai bisogno per l’hotel o altro. Insomma, fammi stare tranquilla.

Fermai di nuovo l’auto, allacciai a mia volta la cintura intorno allo stomaco e partii a razzo. Dakar era ancora lontana.

– Il mal di testa sta salendo – si lamentò – Dammi l’acqua che prendo un antalgico.

Mentre le passavo la bottiglia, mi sorpassò la Lincoln, a tutta birra. Non dissi nulla, pensando che non era il caso di impensierirla ulteriormente, ma il mio cervello partì in ebollizione. Coincidenza? Caccia all’uomo? Ora c’ero dentro mani e piedi e non potevo far altro che tener duro.

Procedetti a bassa velocità, per lasciarmi distanziare dall’altro e anche per il conforto di Sawira.

Feci una sola sosta: riempii il serbatoio, comprai dell’acqua e fumai una sigaretta. Della grossa berlina nera più nulla.

Lei continuò a sonnecchiare. A tratti apriva gli occhi e per chiedermi a che punto eravamo, se mancava ancora molto.

Quando arrivammo all’ospedale provai a svegliarla, ma inutilmente. Dovetti chiamare due infermieri per recuperarla con la barella.

All’accettazione, spiegai che aveva ricevuto un colpo in testa, il giorno prima, e che solo da poche ore aveva iniziato a preoccuparmi seriamente. Riempii un questionario. L’agente di turno prese i dati del mio documento e mi chiese dove sarei stato reperibile, nel caso in cui ce ne fosse stato bisogno.

Non so in quale hotel andrò. Vi farò sapere fra qualche ora.

Rigirò il passaporto di Sawira in tutti i sensi.

– Ma questa donna è del Mali! – esclamò come se avesse detto ha due nasi – Conosce qualcuno della famiglia?

– No, ci siamo incontrati da poco. In Mauritania.

– Può dirci qualcosa di più preciso sulle circostanze dell’aggressione?

– No, non c’ero. Sono arrivato qualche minuto dopo, purtroppo.

– È nostro dovere fare rapporto alla polizia. Sicuramente dovrà rispondere alle loro domande.

– Non è un problema. Mi cerco un posto dove dormire poi torno di nuovo. A dire il vero, se potessi resterei qui.

Il dottor X la sta visitando e potrà darle subito una prima impressione, anche se non sarà proprio una diagnosi. Per ora non preoccupiamoci più di tanto, ha gli occhi aperti e parla quasi normalmente.

Quella sera avrei dunque dormito solo, in un albergo chic sulla strada dell’aeroporto, un rifugio sicuro, lontano dalla città e dal traffico, in una vera oasi di pace. L’indirizzo me l’aveva rifilato proprio l’agente di servizio.

Prima di cena tornai all’ospedale, Sawira era in un lettino, in una stanza piccola e semi buia e sonnecchiava. L’infermiera avvisò il dottor X del mio arrivo e, dopo una buona mezz’ora mi ricevette.

Mi annunciò che l’ufficiale radiologo aveva trovato una leggera lesione ossea, niente di veramente grave ma che la paziente doveva essere monitorata alcuni giorni, per precauzione.

In fin dei conti, la diagnosi fu rassicurante, allora rientrai in albergo, mangiai un piatto a base di pollo e riso e andai subito a letto.

Dormii male, sognando deserto, berline nere, dottori in camice, sonde e teste bendate. Così, all’alba, ero già sveglio.

Mi alzai, lavai e vestii, indossando di nuovo la preziosa fascia, e scesi a passeggiare nel parco dell’albergo nell’attesa che uno slavazzato caffè solubile mi venisse servito. Quando montai nella Hyundai mi ripromisi due cose: primo, una ricerca accurata di un vero espresso, secondo, lasciare l’auto di Sawira nel parcheggio dell’ospedale e prendere un taxi per recarmi al porto, chissà che il Traga e Tonio non stessero ancora sbrigando le pratiche per lo sbarco della Land. Con un po’ di fortuna avrei potuto incrociarli. Tentar non nuoce.

°   °   °

L’infermiera mi pregò di lasciarla dormire e se possibile rivenire un po’ più tardi, magari nel pomeriggio. Decisi di partire alla ricerca del mio vero caffè.

– Ehilà! Non si saluta più? – disse. L’avevo urtato inavvertitamente e non l’avevo riconosciuto.

– Nelson, che sorpresa!

Avevo percorso un centinaio di metri in direzione della grande avenue dove avevo visto un grande albergo piuttosto signorile con ristorante e bar.

– Che ti è successo? Che ci fai qui vicino all’ospedale?

Aveva il fiato corto e sudava copiosamente. Risposi chiedendo a mia volta:

– Quale ospedale? E tu? Non dovevi essere a Nouakchott?

Il tempo di un lampo, il cervello s’era messo in allerta. Quel volto tirato e imbarazzato non mera andato giù.

– Sono appena tornato dal porto dove ho caricato un po’ di merce. Ho il furgone poco distante.

– Ah, e così vieni dal porto? chiesi, ma evitai di approfondire la cosa –   Incrociarsi per caso, qui – continuai – davvero pazzesco.

Non nominai l’ospedale e nemmeno lui, ma qualcosa mi diceva che anch’egli, come me, stava mentendo e che mi aveva abbordato per saperne di più. Dovevo assolutamente tagliar corto e piantarlo in asso. Mi chiese in quale albergo ero sceso e se quella sera avremmo potuto mangiare un boccone insieme. Elusi la prima domanda e per la seconda cercai velocemente una scusa plausibile. Poco distante vidi il grande albergo.

– Purtroppo, devo lasciarti. Ho un amico che mi sta aspettando nel bar di quell’hotel, è con lui che ceno questa sera. Comunque, grazie, con un po’ di fortuna ci incontreremo ancora.

Guardò a destra e a sinistra e anche dietro di lui. Infine, chiese:

– A proposito, e Sawira? L‘hai più vista?

– Mi sarebbe piaciuto, davvero. Ma, a quanto ne so, è rimasta a Saint Louis, o almeno credo.

– Bella tipa, non è vero?

– Ci puoi giurare.– E con quest’ultima frase e una pacca sulla spalla mi congedai.

Lo vidi attraversare la strada ed entrare in una sorta di emporio. Poco lontano, la grossa berlina nera avviò il motore e scivolò pesante nel traffico.

°   °   °

Noi corriamo sempre in una direzione

Ma qual sia e che senso abbia, chi lo sa!

(Incontro – Guccini)

Finalmente nella Land, finestrini aperti e musica a palla. Tonio non smetteva di reinserire “Radici”, uno dei pochi nastri sopravvissuti alle traversie del viaggio. – Mi ci voleva, cacchio! Tutte ‘ste cantilene m’hanno ammorbato.

Il Traga guidava con una sola mano, un braccio penzoloni dal finestrino, la cicca appesa alle labbra piegate in un bel sorriso soddisfatto.

Avevo raccontato un po’ tutto o quasi, insomma quello che avevo potuto in una corta mezz’ora, mentre la gru portuale scaricava l’auto dalla nave.

Un agente di transito ci aveva aiutato a svolgere le pratiche per il passaggio dell’auto e, in un tempo record, ci ritrovammo al di fuori della zona doganale, felici e di nuovo motorizzati.

– Non me l’aspettavo proprio di trovarvi al porto, proprio oggi e a quest’ora – dissi – Se avreste recuperato l’auto ieri non vi avrei sicuramente rivisto fino a Ziguinchor.

Il Traga, rasato di fresco e con una camicetta larga hawaiana, gettò la cicca dal finestrino, ravviò i capelli all’indietro e sentenziò:

– Nulla succede per caso. Se siamo di nuovo insieme, c’è una ragione.

Respirò a fondo l’aria calda mista ai gas di scappamento, tossicchiò, quindi riprese:

– E poi, questa storia della Sawira, mi tocca particolarmente. Forse gliene ho voluto a torto. Se i fatti stanno come dici tu, dovresti tirarla fuori dall’ospedale e magari portarla tu in quel suo terreno. Dai che ti aiutiamo, eh Tonio che lo aiutiamo?

Ma Tonio era altrove. Gli occhi chiusi, canticchiava e teneva il ritmo tamburellando sulle ginocchia.

– Bah! – riprese l’altro – Insomma, tanto è d’accordo!

Filammo veloci in direzione dell’hotel dove avevo preso dimora. La strada costeggiava il mare. Profumi intensi di legna resinosa si alternavano agli effluvi marini e più in là al pesce messo a essiccare accanto alle reti e alle canoe variopinte.

Ci fermammo a un banchetto di frutta. Avevamo una voglia matta di manghi maturi, banane, papaye, avremmo divorato un chilo di frutta a testa.

Mangiucchiando goyave, camminammo lungo una spiaggia dove alcuni lavoratori caricavano i camion con la rena.

Il Traga ci prese per le spalle stringendoci calorosamente.

– Che mondo sarebbe se non avessimo dei buoni amici al nostro fianco?

Mi sentii in imbarazzo e una ragione c’era. Avevo raccontato loro la disavventura di Sawira con tutti i particolari possibili ma non che le gemme fossero sotto la mia camicia. Quello l’avevo omesso, forse per una sorta di rispetto per lei che voleva che il suo tesoro fosse tenuto segreto e al sicuro. Per lei, che s’era fidata ciecamente del sottoscritto, così, istintivamente, più a pelle che altro. Ma con i miei due compari il marsupio era ancora più “protetto” e poi tenerli in disparte non mi pareva onesto, soprattutto con quegli sgherri che gironzolavano nei dintorni, in primis Nelson, secondo me un doppiogiochista.

Decisi di spiattellare il resto.

I due sgranarono gli occhi.

Alura?! – esordì il Traga – dai tira fuori.

– Così? Qui, davanti a tutti?

Te ghe rasün! Spicciamoci ad arrivare in albergo.

Balzammo in auto. La Land partì a razzo alzando un gran polverone. Il Traga spinse a fondo sull’acceleratore e in un lampo arrivammo a destinazione.

Lasciai la mia camera e ne ottenemmo una doppia, familiare, una suite con quattro letti di cui un matrimoniale. Prendemmo delle birre fresche al bar e iniziammo a berle accomodati sul lettone.

Mi tolsi la cintura e la svolsi con cautela. Apparve una lunga cerniera lampo e ne aprii qualche centimetro. Il Traga e Tonio erano eccitati come bambini davanti alla torta di compleanno. Sfilai un primo involucro di plastica contenente una decina di pietre, quindi richiusi il resto, che già mi pareva di avevo violato qualcosa.

– Vi lascio dare un’occhiata e rimetto a posto com’era – brontolai – Non mi sento molto fiero di me.

Aprii e lasciai cadere sul copriletto. Il Traga aveva preso dalla Land la lente per la lettura delle mappe. Raccolse le pietre una dopo l’altra per esaminarle da vicino. Un paio di minuti dopo ci somministrò una corta ma precisa lezione di gemmologia:

– La purezza dei diamanti si giudica dal taglio. Questi sono grezzi ma incolori, quindi direi abbastanza rari. Sembrano puri, la caratura è buona e anche tagliati a brillante non saranno poi così piccoli. Guarda questo farà più o meno un grammo, cioè cinque carati…Urca ve! Questo è ben grande, forse 7 o 8 carati. Di un po’, ma ce n’è altri così?

Non lo so. Quello che dobbiamo fare ora è rimetterli via. 

°   °   °

Intermezzo musicale!

– Ma dove cacchio è ‘sto posto – mugugnai – guarda che ci siamo sbagliati.

Tonio smise per un attimo di soffiare nella sua piccola armonica, una solfa ripetitiva, quattro o cinque note per una sorta di blues languoroso e addormentante.

– Ma no, dev’essere qui vicino – disse – Quello ha detto accanto al piazzale dei taxi.

– Dai, su: fa ballà l’oeugg! – si spazientì il Traga – che fa un caldo bestia.

Sbagliammo di nuovo strada e ci ritrovammo nel trambusto di una stazione degli autobus. Depositi d’immondizie, cessi di fortuna e accanto, a rafforzare le emanazioni del piscio, l’odore dei pesci messi a essiccare in terra e, per coronare il tutto, a pochi metri, alcune donne che si affaccendavano, nonostante la puzza e le mosche, a cucinare pietanze al riparo di vecchi ombrelloni.

Tonio ricominciò a sbuffare nel suo piccolo strumento, fottendosene della baraonda e delle urla dei galoppini e dei procacciatori di passeggeri.

Ai nostri occhi europei tutto ciò pareva inverosimile, paradossale e assai mefitico! Tirammo su i finestrini nonostante i 35 gradi, clacsonando per farci largo.

Riuscimmo infine a svincolarci in una strada vicina, imbattendoci per puro caso nel negozietto d’arte di un certo Traoré, dove avremmo potuto cambiare un po’ di dollari in franchi CFA, l’ultima moneta coloniale vigente in Africa.

Sulla soglia, seduto a gambe incrociate, un vecchio Wolof suonava una kalimba con le lamelle di bambù. Era Traoré. Poggiò lo strumento, accese il fornello di una vecchia pipa e ci chiese di seguirlo nel retro. Tonio tirò fuori il gruzzolo e cambiammo più della metà in moneta locale, quindi, sempre Tonio, volle comprare il piccolo strumento a pizzico di Traoré.

Se lo studiò, quindi provò ad arpeggiare con i pollici sulle assicelle. Blin, blin, blin…

– È facile – disse – in due tre giorni ne avrò la padronanza.

Ci rincoglionì durante il viaggio fino all’ospedale. Armonica e kalimba, blin, blin, blin…

°   °   °

Mi stava aspettando.

Vestita con gli stessi abiti con su un camice da infermiere, sgusciò da dietro una colonna e mi afferrò per un braccio. Il foulard le copriva il viso lasciando scoperti gli occhi.

– Sei qui, grazie a Dio! – bisbigliò.

– Che ci fai vestita così. Che succede?

Il caldo umido e gli odori di etere e dell’alcol davano alla testa.

Mi baciò sulla guancia.

– Sono un po’ sudata – disse imbarazzata – per il resto sto benone.

– Non mi hai ancora risposto: che ci fai con un camice bianco?

– L’ho visto! – esclamò, e gli occhi divennero lucidi, pieni di spavento.

– Chi, Nelson? Se è di lui che parli, l’ho già incontrato a due passi da qui e mi ha chiesto dov’eri. È stato come se…

– No, Nino, non lui – mi interruppe – Credo che il mio aggressore sia qui, in questo ospedale. Non ne sono proprio sicura poiché dopo che mi ha colpito e prima di cadere l’ho appena intravisto. Ma penso sia proprio la stessa persona, lo stesso berretto giallo, quello lo ricordo bene, e poi puzzava, sapeva di cane bagnato, e anche questo ha lo stesso odoraccio. Poco fa l’ho visto di spalle, uscivo dal bagno mentre lui inforcava il corridoio. Non ho incrociato il suo sguardo per un pelo.

Le prime lacrime le scivolarono lungo le guance.

– Ho paura! – esclamò – una fifa da matti. Quelli non mi danno tregua. E pertanto, oltre a Jamal, nessuno era a conoscenza delle pietre.

Mi prese per le spalle e aggiunse:

– Quelle gemme è roba mia. È un vecchio debito che alcuni Bambara avevano con mio padre, di quando anche lui lavorava alla miniera, tanti anni fa. Ci hanno raggiunto nel deserto, quello lo hai visto, e Jamal ha dato loro in cambio dei documenti, dei passaporti gambiesi comprati al mercato nero. Li ha pagati con i suoi soldi per permettere a quella gente di sfuggire alla miseria e rifarsi una vita. Laggiù lavoravano fino a tredici, quattordici ore al giorno, come schiavi, in fondo a cunicoli malsicuri, con pochissimo ossigeno e acqua insalubre e razionata. Quelle pietre sono pulite. Non ho rubato nulla a nessuno e Jamal, lui, mi ha solo aiutato a mettere su questo mio sogno…Ora sai tutto.

– Stiamo andando via!la rassicurai. Smettila di preoccuparti.

Gli amici erano fuori, nel parcheggio. Non avevamo nulla da temere. Saremmo schizzati via in un lampo verso il sud, laddove avremmo dovuto incontrare l’uomo delle canoe, a pochi kilometri dall’ipotetica e futura proprietà di Sawira.

– E il mio passaporto?

Lo tirai fuori.

– Eccolo. Ho ricopiato i tuoi dati sulla scheda all’accettazione e l’ho tenuto io.

– Allora hai letto il mio vero nome.

– Si, certo. Ma continuerò a chiamarti Sawira, per il momento.

– Coumba! Lo so, Non piace nemmeno a te, vero? Ma è il nome che ha scelto per me il mio vecchio.

Raccolse la borsa, mi prese sottobraccio e mi spinse verso l’uscita delle urgenze. Uno dei due barellieri che l’avevano soccorsa all’arrivo, smise di lucidarsi i denti con un bastoncino di legno e ci guardò perplesso. Feci un cenno con la mano e un sorriso stupido e raggiungemmo gli amici.

Sawira montò sulla Land, con Tonio. Il Traga ed io sulla Hyundai. Uscimmo a passo d’uomo dal parcheggio del vecchio ospedale per poi infilarci in una coda di auto strombazzanti. Nessuno dietro di noi!

°   °   °

– La Casamance è un paese di foreste, di fiumi e torrenti, e poi c’è il mare, affiancato da lunghissime spiagge. Amo questo posto e nessuno mi impedirà di viverci. Guardate questa casa: è magica. Ha un’apertura sul tetto, come un imbuto, per raccogliere le acque piovane e illuminare tutto l’interno. I Diola sono dei veri architetti! Questa sarà la reception, che te ne pare?

Pronunciò queste frasi con la voce rotta dall’emozione, mentre ammirava felice la sola casa, rotonda e immensa, sul famoso terreno quasi acquisito.

Entrammo. Un odore di paglia umida pervadeva l’aria senza essere sgradevole, sembrava apportasse solo un po’ più di frescura. In alto, l’ampio varco sul tetto a impluvio riversava un enorme fascio di luce nello stanzone. Sotto, nello sprazzo assolato, un banano alzava le sue larghe foglie al cielo in attesa della prossima pioggia.

Tutto pareva addormentato, immerso in un sogno, un incantesimo appena rotto dalla voce squillante di Sawira, mentre saltellava come un grillo, girava in tondo, toccava i muri, carezzava le colonne di legno e rideva, così lontana dai tristi giorni di quel maledetto colpo in testa.

I miei due compari apparvero. Tonio, sulla porta accanto al Traga, disse:

– Dovresti restare qui con lei. Il posto è incantevole e lei è una con le palle! E anche bella, Cristo se è bella.

Ora aveva i capelli corti e tinti di biondo. Un’astuzia mimetica, disse, non si sa mai.

Erano già passati quindici giorni dal giorno in cui eravamo partiti in fretta dall’ospedale e condotto Sawira nel suo angolo di paradiso. Noi, avevamo infine percorso il fiume in piroga ed eravamo rientrati il giorno prima. Eravamo avidi di letti comodi e pranzi copiosi, poiché quel tratto d’avventura s’era rivelato più spossante degli altri e sembravamo usciti da una gragnuola di bastonate.

Fu un’escursione disorientante, in un dedalo di bracci di mare e fiume nel bel mezzo della foresta tropicale, dove mangrovie, palmeti e alberi delle calabasse si intrecciavano alti e fitti lungo le rive e sui numerosi isolotti lussureggianti invasi dalle migliaia di uccelli.

Nonostante i cappelli a tese larghe col retino anti-insetti e le camicie a maniche lunghe, le zanzare, in sibilanti attacchi senza tregua, erano riuscite a nutrirsi abbondantemente del nostro sangue zuccherino. Eravamo ancora più smagriti e con la pelle sempre più bruciata dal sole, ma anche appagati dalle novità pittoresche e esotiche e dai contatti umani con i coltivatori delle risaie o con i pescatori, che a sera ci rifocillavano alla meglio con granchi e ostriche e vino di palma. Ma gli attacchi di nostalgia cominciavano ad affiorare prepotenti e non si faceva che evocare i caffè con la macchinetta, i maritozzi con la panna e anche lasagne, pizze, e abbacchi al forno. 

Ed ora eravamo lì, con lei, nei pressi di Ziguinchor, e tutto andava per il meglio.

Dopo aver visitato la proprietà, apparecchiammo un tavolo tondo di vecchie assi di legno vicino a un capanno ricoperto di buganvillee che serviva da cucina, all’ombra di un mango. Il Traga aveva ordinato frittelle, pollo e manioca con bevande varie e un tipo con la moto li stava consegnando. Sawira aggiunse un gran piatto di riso con carne e fagioli. La spanciata era pronta. Ci sedemmo in circolo con la bava alla bocca e le forchette strette in pugno come tridenti.

Ogni tanto, lo sguardo dolce e stuzzichevole di Sawira (la quale aveva già prenotato due camere per la notte nelle vicinanze) mi allontanava dal presente e proiettava nella futura notte. Se mai andrò in paradiso, mi dicevo, è così che dev’essere, con una grande donna che mi desidera, gli amici all’ombra di un mango in fiore e la promessa di una notte d’amore.

Ma era dicembre, presto a casa avrebbero decorato l’albero con tante palline e la casa avrebbe preso l’odore di aghi di abete. Così, mi sorpresi più volte a pensare al rientro e alla famiglia.

Ero combattuto, di brutto, sapevo che sarebbe stato difficile separarmi da lei e da quei luoghi, soprattutto in quel frangente, in quel gran giorno di festa.

Era una domenica. Una domenica grassa e lenta, con macchie d’unto di frittelle sulla maglietta, decine di birre fresche che uscivano dalla ghiacciaia e infinite occhiate languide. Tutto sembrava perfetto, direi persino godurioso, ma tutte le cose, ahimè, finiscono sempre per guastarsi.

Verso la fine del pomeriggio, mentre il sole arrivava all’altezza dell’orizzonte e la luna si affacciava timida fra i rami spogli, spuntò un taxi e dal taxi sbucò fuori un gigante color ebano con i bicipiti che straripavano dalla maglietta. Era madido di sudore. Si avvicinò quasi correndo, contornò l’albero e si piazzò davanti al tavolo. 

Si chiamava Salomon ed era stato “reclutato” per vigilare sul campo e un sacco di altre mansioni. In effetti Sawira lo pagava perché gli guardasse le spalle, una sorta di guardia del corpo e uomo tutto fare. Prese fiato, sputò in terra e parlò. 

– L’ho visto Madame. E l’ho anche seguito. Alloggia a Bignona a una trentina di kilometri a nord. È con una donna, una certa Diatou.

Rimanemmo qualche istante in silenzio poi, il Traga, che aveva capito l’andazzo prima degli altri, andò alla Land, e ritornò con la semi-automatica, la infilò nella cintola e esclamò:

– Miei cari, è ora di mettere la parola fine a questa brutta commedia!

°   °   °

– Dunque, quella certa Diatou di Saint Louis et il Caro Nelson non solo si conoscono ma prendono l’albergo insieme a una mezz’ora di strada da qui. Non male come coincidenza, davvero!

Eravamo nella Land, nella parte in ombra del parcheggio di quell’hotel a Bignona, a una ventina di metri dall’entrata. Salomon davanti con il Traga ed io dietro. Tonio era rimasto con Sawira. Non si sa mai, aveva detto, qualcuno dovrà pure restare con lei.

La luna ormai alta, rischiarava a stento la Land, semi-nascosta dietro gli alberi. Il rumore di una fontana echeggiava lontano.

– Chissà se è veramente lei – provai a dire – era così premurosa con Sawira, piena di attenzioni.

– Sei proprio un pirla, Ni’! Vedrai, vedrai. Mi gioco le palle che è lei che ha orchestrato l’aggressione nel proprio albergo e che ora è sulle sue tracce. La tua amica deve ringraziare il cielo che sei arrivato al momento giusto e meno male che non ha rivelato a nessuno l’ubicazione esatta del terreno.

– Allora, molto probabilmente Nelson era a Dakar perché Diatou gli aveva suggerito di fare un giro degli ospedali. Aveva capito che Sawira aveva preso un brutto colpo e che probabilmente avrebbe avuto bisogno di consultare un vero medico, magari fare una radiografia.

– Che altro? Per me, le stanno dietro da quando si è separata da Jamal e gli altri. Nessuno avrebbe cercato di derubarla fintanto che era col gruppo. Ma quando è andata nell’albergo dalla sua amica, Nelson si è recato a Saint Louis ed ha proposto il colpo alla proprietaria, quella cazzo di Diatou.

– Eccoli! – fece Salomon – sono arrivati, quello è il furgone.

Erano proprio loro, Nelson e Diatou Béye, la bella Wolof dagli occhi grigi. Indossava un abito lungo variopinto e un copricapo in tono col vestito da cui uscivano le lunghe treccine afro. Portava un sacco a bandoliera e un bottiglia di alcol in una mano.

C’era un’altra persona, un piccoletto bianco dall’aria non troppo felice. Si separò da loro e venne verso di noi, senza vederci. Si avvicinò a un vecchio cabriolet inglese, esitò diversi secondi con la mano sulla maniglia quindi, quasi urlando, sbottò:

– Vi do al massimo due giorni, poi rientro a Dakar e delle vostre pietre non se ne parla più. Ho di meglio da fare che inseguire fantasmi, io!

– Basteranno – disse di rimando Diatou – Fra due giorni qui, all’ora dell’aperitivo, come stasera.

Quindi si avviò verso l’entrata dell’hotel mentre Nelson restò accanto al furgone armeggiando con un mazzo di chiavi. Il piccoletto fece un’alzata di spalle, montò in auto, avviò il motore, dette una sgassata e sparì nella notte.

– È il momento buono – bisbigliò il Traga – tu vai da lei e impediscile di rientrare in albergo. E tu Salomon vieni con me, dai!

Con due o tre balzi il Traga fu alle spalle di Nelson. Lo girò di forza, gli mollò un potente destro al plesso solare e gli intimò di sedersi in terra, l’arma nella mano sinistra puntata sulla fronte del Mauritano. Quindi gli infilò uno fazzoletto fra i denti e sussurrò qualcosa di impercepibile.

Fu tutto quello che vidi, mi girai e presi a camminare svelto per raggiungere Diatou prima che arrivasse nella zona illuminata. Seguii quel suo bel didietro tondo e sporgente che ondulava incerto sotto le stelle. Quando la raggiunsi, era già vicino alle scale che conducevano alla reception.

– Come va? – la interpellai trafelato – È da un po’ che non ci si vede.

Trasalì. Aveva un odore fresco di sapone misto a sudore e alcol.

– Beh! Che sorpresa. Non mi dire che sei in questo albergo.

Mi arrivò il fiato acido della bevuta.

– In effetti no, sono venuto per te, per vedere un po’ come butta, a che punto sei con questa tua caccia al tesoro.

Si girò verso l’auto, cercando Nelson con lo sguardo.

– Non capisco – disse – di che tesoro stai parlando?

Allungò la mano libera verso la borsa. La mia mano scattò come un lampo e la bloccò.

– Ascolta. La partita è finita. Ora ve ne andate tu e quel figlio di puttana del tuo amico. Rientra nel tuo cazzo di hotel e scordati Sawira e tutto il resto. 

Il labbro inferiore cominciò a tremolargli. Si girò di nuovo verso il furgone, ma Nelson non arrivava. Io, in cuor mio, pregai il cielo che il Traga non stesse facendo cazzate. Conoscevo bene il suo autocontrollo, sapevo che non ci avrebbe messo in guai troppo seri, ma quantomeno…

Avevo ancora la mia mano su quella di lei. La liberò con un gesto di stizza, aprì la bottiglia e ingollò una lunga sorsata. Era un alcol bianco e spesso.

– Il mio hotel è in fallimento – sostenne – affitto anche le camere a delle ragazze per i loro incontri con i clienti. Sono indebitata fino all’osso e non riesco a venirne fuori. Quando Nelson me lo ha proposto ci ho pensato tutto il giorno, poiché al solo pensiero di tradire un’amica mi veniva il voltastomaco ma, devi credermi, non avevo alternative. E poi, pensavo che si sarebbe trattato di un semplice furto. Purtroppo, lei è rientrata prima del previsto e quel grosso imbecille gli ha assestato una brutta botta in testa.

– Si, però gironzoli sempre nei paraggi nella speranza di ritrovarla. E per che fare? Un’altra mazzata prima di rapinarla? Comunque, le pietre non ci sono più, già date via, trasformate in bigliettoni e i bigliettoni sono stati spesi. È una brutta situazione per te, e non cercare di peggiorartela poiché a giorni arriva Jamal con un po’ di amici (mentii!). Credo che per voi sia meglio sparire dalla zona.

In quel mentre spuntarono fuori il Traga e Salomon. Nelson non c’era. Lo interrogai con lo sguardo. Preoccupato, molto preoccupato. Con un’arma carica bisogna sempre essere pronti al peggio ed io non lo ero.

– Non ti far sangue amaro – parve leggermi nel pensiero – Sta solo cercando di togliersi la merda dalle mutande. Si è cacato sotto, pur de bon! Credo che fra un minuto o due partirà e non sentiremo più parlare di lui. E tu? – disse rivolto alla donna – Ci sei dentro fino al collo, è così?

Ora Diatou aveva gli occhi piegati verso il basso, stanchi e supplichevoli. Non fiatò, non provò a dire nulla. Tirò di nuovo il tappo e buttò giù il fondo della bottiglia.

– Il vostro amico è pazzo – disse Salomon – per un attimo ho creduto che lo avrebbe seccato.

Sudava copiosamente, era un uomo pesante che sprizzava malizia, sudore e malizia. Aveva gli occhi piccoli dei furbetti, abbastanza vicini al naso. Diatou gli dette una guardata, dal basso verso l’alto, poiché il colosso era impressionante e raggiungeva sicuramente i due metri.

Intanto il furgone di Nelson accese i fari, percorse un vialetto sterrato e scivolò fuori dal parcheggio mentre due donne anziane piene di risatine uscivano da un taxi ed entravano nell’albergo.

Era ora di andare. Insistere non sarebbe servito a nulla. Salomon, puntò un indice accusatore contro Diatou e sibilò fra i denti:

– Tieniti alla larga da madame Coumba. E non è un consiglio, dico sul serio! Fa che ti becchi soltanto a guardarla e ti aggiusto per le feste, te ne darò tante che te ne ricorderai per tutta la vita.

L’”operazione” era stata rapida ed efficace e non era il caso di aggiungere altro. Prima di girarle le spalle, mi rivenne in mente lo sguardo fiero e torvo del nostro primo incontro nell’atrio del suo albergo. Ora trovai quegli occhi tremendamente normali; la piccolezza li stava rendendo scialbi e banali.

La piantammo in asso così, come si lascia sul ciglio del viottolo un bellissimo fungo velenoso.

°   °   °

Passò del tempo, per l’esattezza due anni. L’occidente giunse al Natale seguente e poi a quello successivo senza aver risolto nulla dei suoi casini, continuando a far guerre, sfruttare i poveri cristi e scaricare le sue immondizie ai quattro angoli della terra.

Le famiglie erano in fermento, in particolar modo le nostre, cattoliche e munifiche, pronte a indebitarsi per un Natale dignitoso.

Rientravo da un corto fine settimana in Maremma con Tonio e altri amici di quartiere. Roma era più che indaffarata. Tutti correvano sotto un tiepido sole d’inverno in quel giorno di vigilia.

Avevo corso in macchina per non rientrare troppo tardi, poiché i preparativi del veglione a casa mia cominciavano nel primo pomeriggio ed io ero solito aiutare mia madre con gli ultimi addobbi ma anche a pelar zucchine, patate, carciofi, mele.

Entrai in casa con dei pacchetti sotto le braccia e li posai sotto l’albero che già lampeggiava a intermittenza. C’era odore di frittelle di verdure e ricotta. Passai in cucina a curiosare. Mia madre disse: c’è una grossa lettera per te. Ha tutta l’aria di venire da lontano. Guarda sul frigo.

Più che una lettera era un plico marrone con l’immagine di uno squalo sui francobolli. All’interno una pagina scritta, un opuscolo del villaggio, Le Coumba, le foto delle nuove capanne col tetto in paglia e un’immagine di Sawira. I suoi capelli erano cresciuti e aveva il pancione.

Incinta di chi? Mi chiesi, mentre mi saliva in testa una vampata incoerente di gelosia. Andai in salone. La tavola era piena di frutta secca, nocciole, castagne, mandorle, prugne, arachidi. Mi versai un bicchiere di Olevano dolce. Presi una manciata di noccioline, mi accomodai sul divano, trangugiai il vino e iniziai a leggere.

Caro Nino,

la tristezza che mi ha provocato la tua partenza è stata senz’altro una delle più penose della mia vita, ma poi, quando hai risposto alla mia prima lettera dicendomi che saresti tornato qui da me la primavera successiva, il dispiacere è svanito lasciando il posto a una leggera ma dolce malinconia, e ciò mi ha permesso di continuare ad avanzare malgrado tutto e organizzare il mio villaggio. Ma tu non sei venuto, né allora e né dopo, ed io mi sono sentita sola, terribilmente sola e Salomon era lì, fedele e (come ha poi confessato un giorno) molto innamorato di me. Così, stiamo insieme. È un uomo buono e premuroso. Lavora per me e in più ha comprato un furgoncino e organizza escursioni con i nostri clienti ma anche con altri alberghi della regione. È un gran lavoratore e tutti gli vogliono bene e oggi anch’io.

Quello che conta sono le piccole cose, come svegliarsi insieme la mattina, per esempio, o quando hai bisogno che qualcuno ti stringa nelle braccia e che quel qualcuno è sempre lì, pronto ad allargarle e farti un posticino caldo al riparo di tutto. Io la penso così.

Volevo solo dirti che per un po’ ho creduto possibile questa nostra storia. Beh, non lo è stato. Ti ho amato, questo devi saperlo, però dovevo smetterla di pensarti, dovevo smetterla di pensare in generale. Dovevo farlo Nì, come senz’altro hai già fatto tu, vero?

Spero tu viva felicemente e che nulla oscuri il cammino della tua vita.

Abbiamo vissuto una bella avventura, con tanta tenerezza, Sawira.

Squillò il telefono. Presi una prugna secca dal tavolo, cominciai a spolparla e risposi. Era il Traga.

– Non ti chiamo soltanto per gli auguri Nì, ho buone notizie. Ho trovato il camion. È in Svizzera, il tipo che lo vende è appena rientrato dalla Tanzania. Costa poco, una vera occasione. Vendiamo la Land e ci compriamo ‘sta bestia, così avremo un Truck perfettamente equipaggiato, con 4 posti letto, cucina da campo, generatore e tutto quello che serve per affrontare il prossimo viaggio. Vedessi le foto, anzi te le mando. Sembra nuovo, di un bel color cachi, con i fari di ricerca sul tetto, altro che camper! Ehi, si va di nuovo in Senegal, vero? E poi a est, nel Mali. Bamako, Timbuctu, come avevamo detto. Questa volta andiamo a dare un’occhiata intorno a quelle miniere, ha, ha, chissà che non troviamo un affaruccio anche noi.

Mi versai un secondo bicchiere e lo mandai giù di un fiato. Deglutii e insieme al vino ingoiai il nocciolo della prugna. Ne seguii il tragitto mentre scendeva giù a stento, graffiandomi la gola.

– Non ci voglio andare più in Senegal…

– Cos’è successo? Non vuoi più raggiungere la tua bella?

– Troppo tardi Trag, non mi aspetta più. Ho fatto passare troppo tempo, pare…

– Santiddio! Si è dovuto lavorare, mettere via un po’ di soldi e poi un viaggione così va preparato.

– Lo so.

– Insomma, pensi che non ci sia più niente da fare?

– Non lo penso, ne sono sicuro.

– Ehi, ma il Truck lo compriamo lo stesso, vero?

– Mhmm, magari, vedremo… E la pietra me l’hai venduta?

– Certo. Ti ho chiamato anche per questo.

– Dai, spara! Quanto ne hai ricavato?

– Sei testoni Ni’, tondi tondi.

Sei milioni di lire erano molto più di quello che mi aspettavo. Avrei detto solo la metà perché in fondo la pietra era piccolina. Glielo dissi.

– È vero che aveva una caratura modesta, ma era trasparente, nessuna traccia di colore, nessuna inclusione. Ne hanno tirato fuori un brillante di una grande purezza. La tua amica ti ha trattato con i guanti.

Guardai fuori, mentre il Traga aveva ripreso a parlare del camion.

Mi piacque pensare che Sawira in quello stesso istante stesse alzando anche lei lo sguardo sul medesimo cielo. Ero quasi ubriaco e mi sentii decisamente stronzo per non aver fatto un’andata e ritorno in aereo, almeno una volta. Noi coglioni, si pensa sempre che il mondo giri intorno al nostro ombelico, che presunzione!

Lo sguardo ruotò e si posò sulla biblioteca. Avevo messo in bella mostra il libro di Zacarias e più in là, sul muro e in un unico riquadro, le foto incorniciate del viaggio: il Chiquita, la stazione e il mercato di Nouadhibou, il Traga col turbante rosso, le capre che si affannavano intorno alle ultime foglie di quell’unico alberello nel cuore del deserto, la piccola oasi di Akjouit, Tonio che pagaiava sul fiume e, al centro, in mezzo a quelle immagini, una foto degli occhi di Sawira, solo gli occhi. 

Mi penetrarono dentro e rimontarono lungo i nervi e le vene, passando per il petto e poi su fino all’ugola e la lingua, pronti a sfociare in un grido di rabbia, un grido che riuscii a soffocare solo a metà, lasciando fuoriuscire un gemito rauco e impersonale, come il rumore di una grattugia trita ghiaccio, mentre il Traga stava precisando che avremmo dovuto recarci a Ginevra dopo le feste, per recuperare l’automezzo e che bisognava mandare un acconto subito per bloccarlo.

  • Alura, d’accordo così?
  • Cristo Trag, lasciami riflettere. 

Fissai di nuovo quell’immagine.

Dietro quello sguardo dal riflesso forte e ammaliante, potevi immaginare mille storie. Pensai, un giorno scriverò di lei, quando non avrò altro da fare, embè, scriverò qualcosa sulla splendida carovaniera di Timbuctu, così, tanto per non morire con questa pena, con questo peso addosso, il peso di un cielo di un fantastico blu, il mitico blu del nostro caro inferno. 

Allora sorrisi e dissi:

  • D’accordo Trag! Si parte!

Le frattaglie


A un incrocio, osservammo un cartellone scolorito che indicava la direzione dell’antica pista carovaniera per Timbuctu, raggiungibile in “appena” 52 giorni a dorso di dromedario. Era la nostra direzione, ma soltanto dopo un giorno di viaggio sbagliammo direzione e…

Quella giornata fu esageratamente calda. Una fornace a 45 gradi. Ora, la sabbia aveva preso a volteggiare in un vento caldo e leggero: presto avremmo avuto poca visibilità e inoltre il sole sarebbe presto sparito dietro le dune.

  • Non si vede quasi più un tubo! – esclamò Emme, fermando l’auto – Chissà dove siamo finiti.   

Inforcammo gli occhiali da sole e avvolgemmo i volti con i fazzoletti. Scendemmo piano, con cautela, sfiorando il suolo con leggerezza e deferenza, nemmeno avessimo avuto il timore di svegliare un gigante assopito sotto la sabbia. Ma magari c’era, chissà.

Il silenzio ci avvolse nel nulla. E il nulla ci avvolse di silenzio.

Oltre alla fatica e alla fame più nera, ora s’era aggiunto l’atroce dubbio: ma la sappiamo usare ‘sta cazzo di bussola?

Emme spiegò la cartina topografica, poggiò la bussola sul palmo della mano e allineò la freccia di orientamento con il nord dell’ago magnetico. La freccia oscillò verso oriente.

  • Dovevamo procedere a sud ma stiamo derivando ad est, disse. Guarda la cartina. Abbiamo superato l’oasi di Zagora e sicuramente oltrepassato la linea di confine. Siamo già in territorio algerino.
  • Che si fa? – chiesi impensierito – Chissà dove siamo finiti.
  • Già! Torniamo indietro, troviamoci un tetto per questa notte e, soprattutto, sfamiamoci!

Avevamo deviato di parecchio e perso la pista che avrebbe dovuto portarci in un villaggio berbero, dove avremmo potuto rifocillarci e trovare un giaciglio, o perfino un letto vero.

Ripartimmo, bussola alla mano e cuore in gola, con lo spettro di passare la notte nel buio, circondati dal deserto taciturno e senza vita.

Percorremmo una trentina di kilometri ad un’andatura sostenuta nonostante la scarsa visibilità. Il chiasso del motore, ingigantito dall’assenza di qualsiasi altro rumore, spazzava via la poesia e l’incantesimo degli ultimi raggi di sole che indoravano i rilievi sabbiosi.

  • E quello? – urlai a un tratto – Non è un fuoco?
  • Lo è, lo è! – giubilò Emme – Finalmente un segno di vita.

Ai bordi di una duna, apparvero alcune piccole e basse abitazioni illuminate da un enorme falò. C’era perfino una palma, si stagliava alta e autorevole contro il cielo rosseggiante.

  • Salvi! – esclamammo quasi all’unisono.

Parcheggiammo il fuoristrada accanto a una delle casupole e scendemmo. Il belare di alcune capre e i bramiti rauchi di una decina di dromedari, adornati con vistosi paramenti rossi, ci accolsero con clamore. Due uomini e una donna in costume berbero, seguiti da alcuni bambini, apparvero sul ciglio di una porta, accanto al fuoco. Uno degli uomini, in tunica gialla e copricapo tuaregh, portava un vecchio moschetto a bandoliera. Arrivò anche un cane, nero, una sorta di levriero alto e macilento che venne ad annusarci.

Le fiamme, alimentate dal vento, serpeggiavano in tutti i sensi, illuminando in modo etereo la compagnia.

Era una scena da fiaba, affascinante: per i colori accesi degli abiti, del cielo che si tingeva di indaco, per i dromedari agghindati con addobbi colorati e fronzoli, e quei bambini che ridevano, per nulla intimoriti, senz’altro felici per quell’intrusione nel loro eremo sperduto.

A dispetto dell’arma a tracolla, anche l’uomo col fucile aveva un bel sorriso, genuino e piacevole, ma lo sguardo era accorto, pronto a cogliere il minimo indizio di pericolosità.  

Emme provò con l’inglese, ma non funzionò. Il secondo uomo si avvicinò, parlava un po’ spagnolo e ci pregò di seguirlo. Il suo nome era Ibrahim.

Dietro le case, un cortile cinto da mura e un secondo fuoco, anzi, un gran letto di braci ardenti intorno alle quali sedevano, a gambe incrociate, altre due donne e un anziano. I piccoli presero posto accanto a quello che poi capimmo essere il bisnonno. Da un’altra abitazione spuntarono due uomini in caffetano e babbucce in feltro. Ridevano tutti, dovevamo avere senz’altro qualcosa di comico, bislacco. Mi sentii in imbarazzo, Emme se ne accorse, mi passò una mano sulla spalla e disse:

  • Non te la prendere, dai! Poteva capitarci di peggio!

***

.

  • L’avete scampata bella – ci spiegò Ibrahim: erano gli unici abitanti della regione e Zagora era a un giorno di dromedario.  

Ci sedemmo vicino alle braci, un cerchio di tizzoni ardenti di un paio di metri di circonferenza.  Una delle donne ci portò del tè dolce e profumato che degustammo sotto lo sguardo attento, e tuttora divertito, delle donne e dei bambini. Il vecchio ordinò qualcosa ai ragazzini che partirono correndo.

Ricomparvero dopo alcuni minuti, tirando per una fune un magnifico caprone dalle lunghe corna contorte.  

In tre lo afferrarono per le corna e l’animale, aitante e nerboruto, prese a dimenarsi come un ossesso. Dopo molti sforzi riuscirono ad appiccarlo a un asse di legno, per le zampe posteriori e a testa in giù.

L’anziano capofamiglia si avvicinò e sorrise, sfoggiando quattro grossi incisivi d’argento. Pronunciò qualcosa in arabo mostrandoci una scimitarra, antica e appena incurvata come quelle dei fanti ai tempi di Napoleone. Alzò le braccia tenendo l’arma dritta davanti al volto, fece partire tre o quattro fendenti che sibilarono nell’aria, quindi si girò, ruotando sui talloni, e assestò una sciabolata alla gola dell’animale.

Il sangue prese a schizzare tutt’intorno, mentre il malcapitato dava le ultime zampate a destra e sinistra. Una seconda sciabolata lo aprì in due, dal torace al ventre: due gesti fulminei e precisi, qualcosa di impensato per una persona di quell’età.

Una delle donne si avvicinò con una bacinella, un’altra con un piatto d’alluminio. Il vecchio infilò le mani nella bestia e sfilò le interiora. Tagliò un pezzo di budello, scelse alcune frattaglie, fra cui milza, rognoni e cuore. Mise il tutto nel piatto, tese le braccia e ce le offrì, calde e fumanti, mentre l’altra donna raccoglieva il sangue nel bacile.

Ibrahim ci informò che quello era un dono ospitale e che avremmo potuto consumare quelle viscere a nostro piacimento, quindi ci indicò un angolo del cortile invitandoci a seguirlo.

  • Agarre la carne y venga con migo! (prendete la carne e seguitemi) ordinò.

Lo accompagnammo in silenzio: quell’omaggio anomalo aveva legato la lingua a entrambi.

Entrammo in una casuccia col pavimento in terra battuta, senza finestre. Nel fondo, due stuoie di canapa e un semplice sgabellino con su un vassoio e dei bicchieri vuoti.

Restai un attimo sulla porta a osservare il cielo. Eravamo già avvolti da un mare di stelle e quel malessere leggero, dato dall’assenza di limiti, che ti corrode silenzioso mentre affronti l’immensità del deserto, era finalmente svanito e la luna, giallognola e sorridente, saliva lenta dalle dune: tutto era perfetto.

Sentii Emme ringraziare Ibrahim per averci permesso di passare la notte al riparo.

Entrai e soffermai lo sguardo su quelle budella sanguinanti mentre la fragranza dello sventurato montone sulle braci, prese a insinuarsi provocante nelle narici e a travolgere gli stomaci vuoti.  

Posammo il piatto in un angolo e facemmo un salto alla macchina. Volevamo prendere i sacchi a pelo e le sigarette. Emme già si leccava i baffi pensando alla grigliata, disse:

  • E chi se l’aspettava. Un festino in pieno deserto, proprio quando le cose si stavano mettendo male.

Ma una cosa lo preoccupava:

  • Che ne facciamo delle interiora? – chiese a voce bassa, come se qualcuno ci stesse spiando – Non possiamo mica buttarle.
  • Ho un’idea – risposi – facciamo finta di averle messe in auto, invece le interriamo.
  • Ma che dici?
  • Si. Scaviamo un buco e le seppelliamo.
  • E se sgamano?
  • E come? Mica ci perquisiscono.

Architettammo il piano. Saremmo ritornati alla stanza con la pala camuffata nei sacchi a pelo e più tardi, nella notte, avremmo scavato un buco sotto una delle stuoie e le avremmo fatte sparire, chi s’è visto s’è visto.

Eravamo di nuovo giunti davanti alla nostra stanza, con la pala, quando entrò una delle donne, pelle scura e denti bianchi, sorrise e s’impadronì della metà delle viscere, le mise in un tegame e si eclissò.

  • Bah! – fece Emme – la metà della cosa è risolta, tanto meglio.

L’aria stava già rinfrescando. Infilammo le sahariane sulle magliette polverose e raggiungemmo i padroni di casa intorno al bivacco.

***

Quella sera mangiammo le migliori interiora mai assaporate prima, equivalenti forse ai piatti del mattatoio romano quando le “sore Lelle” rimestavano nelle marmitte trippe, animelle e le famose code alla vaccinara.

Il fegato e i rognoni furono affettati e arrostiti sulle braci e il resto sfrigolato nell’olio bollente con cipolle, zenzero, coriandolo e altre spezie profumate. Il tutto era così buono che decidemmo di non interrare la rimanenza bensì di metterla nella nostra borsa ghiaccio per sfamarci l’indomani. 

L’aspetto truculento della macellazione era stato scalzato dal delizioso festino, dalla signorilità degli ospitanti e dal loro vociare allegro. In ultimo e per finire, non avremmo dovuto più occuparci dell’altra metà del piatto, poiché, a quel proposito, quando tornammo ai nostri giacigli, avemmo la gradita sorpresa di trovare il loro levriero pelle e ossa che leccava il fondo della stoviglia.

  • Compà! Addio frattaglie! –   sbottai ridendo, mentre i bramiti dei dromedari addolcivano la notte.

Ci penserà l’inverno

La strada è mobile. Non c’è niente di compatto sotto i nostri passi.

La radiosveglia suonò le sette del mattino. La playlist dell’mp3 attaccò con Jersey girl di Waits mentre la mosca si staccò dai vetri e iniziò a ronzare. Ercole uscì dal suo cupo rimuginìo e seguì lo svolazzare dell’insetto fin quando non si posò su una chiazza di sole, nel bel mezzo del tavolo.

Una superstite – pensò – scampata al freddo di dicembre.

Prese la bottiglia del rosso, la portò alla bocca e ingollò un bel po’ di vino. La mosca non si mosse, iniziò ad agitare freneticamente le zampette su una macchia di sugo rappreso.

Vabbè, non ti ammazzo – decretò – Ci penserà l’inverno.

Svuotò il resto del vino a lunghi sorsi, posò la bottiglia e si rivolse di nuovo all’insetto, ma ad alta voce:

Siamo entrambi figli dell’inferno! – gli disse con enfasi.

Clara trovò la frase interessante, ma non la concepì fino in fondo. Aprì gli occhi arrossati e diminuiti dal dolore, si girò con fatica verso di lui e lo guardò, sperando di afferrare il senso di quell’asserzione dall’espressione del suo viso. Di solito, riusciva a cogliere particolari impercettibili, invisibili agli altri, ma non trovò nulla, nessun ghigno, luce o battito di ciglia: sembrava stanco e vuoto, sospeso nel nulla.

Il cigolio del lettino lo scrollò: Clara si stava muovendo. Ercole si alzò e si avvicinò alla moglie, evitando di incrociare il suo sguardo.

La sollevò dalle spalle e le accomodò i cuscini dietro la schiena.

Lei prese fra le dita quella sua grande mano robusta senza perderlo d’occhio; lui fece scorrere lo sguardo dalla maschera del respiratore artificiale alla fronte aggrottata e infine ai capelli lunghi e scarmigliati.

La musica ti ha svegliato? – chiese.

Clara fece segno di no, battendo due volte le palpebre.

Ettore allungò una mano, prese la spazzola dal comodino e iniziò a sgrovigliarle la lunga chioma arruffata dalla notte.

E oggi sei ancora qui, con me – le disse piano, stringendo un po’ più forte le sue piccole dita.

E gli sguardi si toccarono, ed era tutto quello che lui avrebbe voluto evitare, per resistere ancora e non lasciar posto alle lacrime.  

Posò la spazzola e si alzò. Lei sentì il calore della sua mano allontanarsi. Avrebbe voluto dirgli di lasciarle un po’ di quella mano, solo un po’, ma non lo fece. Di colpo ebbe freddo. Un gran freddo.

Ettore tornò al tavolo. La mosca era di nuovo su quel maledetto grumo di sugo.

L’istinto ebbe il sopravvento. Schizzò rapido, dette una gran manata a piatto e la spiaccicò sulla tovaglia.

Si muore per un sì o per un no! –  disse, osservando i resti dell’insetto maciullato.

Si pulì la mano sul pantalone del pigiama e si accostò alla finestra.

La playlist attaccò una ballata. Un’altra mosca, grossa e rumorosa, spuntò fuori dal nulla e si posò sui vetri. Ercole non la degnò di uno sguardo, aprì i battenti e cercò il sole, ancora basso e leggermente occultato dall’unica quercia del giardino, alta, frondosa e delicatamente innevata.

Un micione bianco, semi nascosto nella neve, orecchiava, come rapito, il cinguettio dei passeri annidati nell’imponente e ospitale albero.  


Sembra tutto perfetto, pensò. E forse lo era.

Una notte, tempo fa…


Ad ogni singolo filo d’erba è destinata una foglia di rugiada (proverbio cinese).

Orribile mattino d’estate! Uno scirocco afoso ti riempiva occhi e naso di rena polverosa e il cielo, fosco, greve e basso, cercava di posarsi in terra per schiacciarti come un torchio. Il mare era nero ed io me ne stavo seduto a guardarlo, rotto dal sonno.

Avevo dormito poco e niente. Senza forze, vuoto, morale a zero.

Quel mese avevo lavorato duro, e quando dico lavorato duro non è un semplice eufemismo, poiché si sgobbava davvero, e più del ragionevole! Almeno dodici ore di fila e senza un giorno di riposo, col termometro che oscillava intorno ai 35°.

Avevo un disperato bisogno di denaro e prendevo spesso il posto di altri impiegati che volevano approfittare del mare: surf, vela, gite in barca, tennis, pic-nic sul litorale. Beati loro!

Gestivo un bar-spiaggia dalle dieci di mattina alle ventidue e, quando occorreva, intorno alla mezzanotte, andavo a dare una mano al bar della discoteca. Il tutto nello stesso villaggio, un complesso alberghiero con spiaggia naturista, dove penzolavano uccellacci e uccellini, passere folte e passere rasate.

Fra tutte quelle passere ce n’era una particolare, di Amburgo.

– Ehi tu! – urlò, turbando la quiete di quel grigio mattino.

Si chiamava Luana ed era proprio carina ma non ne era molto cosciente, diciamo non sempre. Era un po’ spenta e quando si è spenti non si ha molta considerazione di sé stessi, non ci si auto-ammira mai, ed è un guaio. Anche per questo, nonostante mi attirasse, non mi ero ancora fatto avanti; quel musone ricorrente mi frenava e mi impediva di fare il passo decisivo. Altrimenti, di lei mi piaceva quasi tutto, i capelli cortissimi color paglia, le poche lentiggini sparse qua e là, i denti bianchi, grandi e regolari e gli occhioni verdi, leggermente all’insù.

C’era stata solo una mezza toccata e fuga nell’ingresso delle toilette comuni, dove ci scontrammo e rimanemmo incollati quasi per caso. Le rubai un mezzo bacio, ridacchiando nervosamente, entrambi pieni di imbarazzo.

Mi fissò mentre si aggiustava, con inconsueta malizia, il pareo sui seni tondi e sodi. Aveva 27 anni. Io poco più.  

– E stasera? – chiese – facciamo qualcosa di bello o cosa?

– Perché stasera? E perché qualcosa di bello?

– Maledizione, è il tuo compleanno!

Incredibile, pensai. L’avevo dimenticato. Quel mese era passato in un baleno. Avevo messo il pilota automatico, svolgendo meccanicamente tutte quelle mansioni diventate abituali: apertura cassa, mise en place dei tavoli, rifornimento frigo bar e frigo-pizza, primo servizio, secondo servizio, allestimento tavolini gelateria, nuovo rifornimento frigo, preparazione pizza a portar via, servizio e chiusura cassa dopo le ventuno.

– Non so che dire, – dovetti ammettere, completamente spiazzato – provo a vedere se qualcuno prende il mio posto, ne parlo al boss. Se ci riesco gli strappo la serata, ma mi sembra un po’ tardi per trovare qualcuno che mi sostituisca.

Ich bitte dich (ti prego!) che sto pure un po’ giù di morale!

– Uhm, tu e i tuoi alti e bassi. Te l’ho detto, faccio il possibile.

– Dai, c’è anche Steffi, la berlinese. Ti ricordi di lei? È arrivata ieri.

Il solo nome, Steffi, mi fece l’effetto di un caffè triplo e mi scrollò dal torpore. Steffi era una cannonata tedesca, un tuono a ciel sereno, una stella cadente in una notte triste e buia.

– Steffi… vuoi dire Steffi, la campionessa, è di lei che stiamo parlando?

Era proprio quella Steffi lì.

– Glielo dirò che hai fatto quella faccia – rise – Lo so, lo so che ti piace, una ragione di più per liberarti e incontrarla. Dai, che festeggiamo, zum teufel (al diavolo)! Si può andare da lei, alla villa, i parenti arrivano solo domani, passano a prenderla e rientrano insieme in Germania. Avrei preferito che rimanesse un po’ di più, ma purtroppo deve riprendere gli allenamenti.

– Bè, peccato!

– Sennò veniamo da te. Apriamo una buona bottiglia e stiamo un po’ insieme, qualcosa di semplice e carino. La torta la compriamo noi. Suvvia, non fare il guasta feste!

Si avvicinò lasciando sì e no dieci centimetri di spazio fra di noi. I seni, quelli, mi sfiorarono il torace, puntandomi come due torpedini radiocomandate. Non potevo crederci, non sembrava la stessa, aveva mandato giù qualcosa, magari delle pile ad alta densità energetica.

– Ebbene? – chiese, con gli occhi languidoni – a che ora?

– Alle nove, stasera. – balbettai.

– Allora siamo intesi, alle nove.

Ritirò le torpedini, lasciò cadere il pareo sulla sabbia umida e si avviò nuda verso la riva per poi lasciarsi ingoiare dalle onde brunastre.

***

Mi inventai un malanno e presi l’intero giorno di riposo, fra gli smadonnamenti del vice-boss e della mia squadra.

Dopo una corta siesta, ripulii alla meglio la stanza e il saloncino, lavai col detersivo profumato il bagno, riempii il frigo di birrette e vino, avviai un sugo di carne e alla fine dormii di nuovo, e questa volta come un sasso, fino a sera.

Al risveglio, il cervello, molle e ovattato, fece fatica a emergere. Forse non avrei dovuto interrompere la cadenza, pensai, guardando la tenuta di lavoro ancora appesa a un gancio sulla porta.  

Non era ancora buio ma il cielo permaneva cupo e pesante e il caldo sempre soffocante. Era ancora presto. Ne approfittai per allungarmi di nuovo, due cuscini dietro la testa, una bottiglia di S. Pellegrino ghiacciata e una sigaretta.

Me ne stavo rilassato a sbuffare nuvolette di fumo quando arrivarono, fresche e profumate, con le minigonne, i sandali, una bustona di roba e una gran torta al cioccolato. Erano belle e incandescenti, sapevano di monoï, di cocco, d’estate. Tutta l’atmosfera delle vacanze a mare invase la stanza in un’unica ondata vivace e spumeggiante.

Entrarono in cameretta. Steffi aveva caricato gli occhi di ombretto nero sfumato e portava la lunga chioma rossa sciolta lungo la schiena su un toppino aderente. Non sapevo su cosa incantarmi per primo; scelsi le spalle, dritte e forti, da nuotatrice.

– Dove poso questa roba? – chiese – ho portato le salsicce bianche, quelle bavaresi, le mangiamo in aperitivo con la birra bianca.

Posò la busta in terra senza attendere risposta e si mi si piazzò davanti. Sorrise. Bocca carnosa. Occhi scuri, affilati.

Luana si avvicinò. Era sempre elettrica, saltellava sulla punta dei piedi davanti alla sponda del letto. Doveva aver ingoiato altre pile.

– Ehi, ma non ti alzi, nemmeno un bacio, nulla?

– Ero ancora frastornato, rapito dalle forme tondeggianti dell’una e dell’altra. Mi dissi “Datti una mossa! Cerca di essere carino” ma non feci nulla. Sono timido e impacciato, con le donne funziono a scoppio ritardato e tiro fuori stronzate inutili. Per l’appunto, reagii della sorta, mentre si gettavano sul letto per uno scambio di timidi baci sulle guance.

– Cavolo, sono appena le otto – mugugnai – siete arrivate con un’ora di anticipo e mi mettete pure fretta.

– Beh, non ho potuto fare la doccia e la faccio qui da te – replicò Luana – Da me l’acqua viene fuori gialla.

– Ma anch’io devo andare sotto la doccia.

– E allora? Si va a turno, oppure la si fa insieme, che ne dici? Ha, ha, ha!

– Ha, ha, ha – rise l’altra

– Ha, ha, ha – risposi io.

– D’accordo vai prima tu – consentì Luana.

Mi alzai, ero in boxer, e mi diressi in bagno.

– Questo bungalow è un forno – bofonchiò Steffi, ma accostò comunque gli scuri e tirò le tende, senza chiudere a chiave.

Aprì il frigo. Stappò quattro o cinque birre. Ne portò una alle labbra e mandò giù un lungo sorso.

– Vuoi? – disse, seguendomi in bagno.

Presi la birra, ne bevvi un dito mentre afferravo l’accappatoio di spugna.

– Come ti butta? –  chiese – È un anno che non ci si vede.

C’era uno sgabello e si sedette a cavalcioni. La minigonna si ritrasse: non c’erano le mutandine, nada!

Ebbi una strana sensazione. Mi sentii messo all’angolo, intrappolato. Due gatte e un topo. L’altra seguì a ruota e si affacciò sulla porta. Era già in mutandine e maglietta.

– Oddio – dissi – è meglio ch’io vada sotto l’acqua fredda.

Sorrisero insieme, lo sguardo carico di sottintesi. Buttai giù un’altra sorsata di birra e riafferrai il controllo dei sensi.

Questa volta, provai a guardare all’altezza degli occhi.

– Come vuoi che vada – ripresi, rivolto a Steffi – si crepa dal caldo e lavoro come un dannato.

Aprii il soffione della doccia e mi sbrigai a tirare la tendina di plastica, col boxer indosso. Steffi si alzò e ambedue tornarono nel saloncino.

È vero che si schiatta, sentii dire.

Qui dentro ancora peggio!

Pare che arriveremo ai quaranta e non siamo ancora a luglio!

Oddio, da morire.

Ad Amburgo invece si respira, massimo 20 gradi!

Echt? (davvero?).

Poi abbassarono il tono della voce. Confabularono.

Sentii Luana dire: È un gran timidone, das ist alles (questo è quanto)!

No, aspetta, la togliamo là dentro.

No, adesso! Dai, schnell!

Il tutto sembrava un po’ confuso. Qualche secondo dopo, entrarono e scansarono l’incerata. Nude sotto ma non sopra. Steffi scivolò per prima sotto il getto fresco dell’acqua, poi entrò Luana. Non sembrava più la stessa, sguardo intenso, deciso. Un angolo della bocca, leggermente schiuso, lasciava intravedere il canino. Una strana smorfia, quasi un ghigno.

– A casa tua, si bolle! – mormorò mollemente, mentre sfilava il toppino già intriso.

Sui seni, una scritta a pennarello rosso che perdeva colore: tanti auguri di buon compleanno!

Contarono uno, due, e tre, e intonarono uno stonatissimo “happy birthday to you” mentre si impossessavano del bagnoschiuma. Ne spalmarono una gran dose sulle tette e l’inchiostro rosso sparì del tutto.

E lì, capii il senso della frase “andare in brodo di giuggiole”. Per una volta ero io quello baciato dalla fortuna! Era il mio turno, santiddio. Non mi restava che aprire le mani e raccogliere quella manna caduta dal cielo.

Fuori, i ragazzini dei vicini lanciavano pallonate contro la parete senza finestre del bagno. Ridevano, gridavano, parevano felici. Più in là, qualcuno stava innaffiando il giardino nonostante l’ora tarda e un cielo che tratteneva a stento il temporale. Grande serata, pensai, mentre la notte s’annunciava dolce e laboriosa. Gli uccellini avrebbero iniziato a cinguettare all’alba ed io, io mi sarei svegliato tardi e con il sorrisetto vittorioso.

D’un tratto sentii un rumore, qualcuno stava aprendo la porta! Uscii dalla doccia e, mentre stringevo un asciugamano intorno alla vita, li vidi. C’erano tutti: le animatrici e la baby-sitter, il pizzaiolo, le cameriere, quelli della reception e anche una tipa della direzione. Avevano tutti qualcosa in mano, una bottiglia, un pacchetto regalo e persino un mazzetto di fiori strappati chissà dove.

– Merda! – esclamò Luana – Dovevano arrivare dopo le dieci – e infilò il mio boxer.

– Improvvisata! – fece una delle cameriere – Visto il tempo, il capo ci ha fatto chiudere prima delle nove, e siamo qui. Pare che sia il tuo compleanno.

Lolly, l’addetta alla reception, tagliò i gambi ai fiori e li infilò in un bicchiere. Gli altri posarono i vini e le birre sul tavolo, sul lavello, in terra, quindi si sparpagliarono un po’ dappertutto. Non restava più posto ma ne entrarono altri: l’insegnante di tennis, Lucia, la ragazza del bar, e anche il guardiano notturno. L’invasione era completa.

– Ehi! – fece Ricky, il pizzaiolo, alto e grosso e con il cranio rapato – Ma quando si mangia?

La baby-sitter scartò il primo pacco di birre.

– Quante ne abbiamo di queste? – chiese – mi sa che non bastano. Dai, stappiamo che ci vuole un brindisi.

Cheers! Jessica

– Ma stasera non lavora nessuno? – bofonchiai – ma a che ora apre la discoteca?

Nessuno rispose.

Tornai in bagno, tolsi l’asciugamano e infilai l’accappatoio. Steffi e Luana, piegate in due, se la ridevano a crepapelle.

Passai in camera per recuperare le sigarette: c’era già gente sul letto. Qualcuno mi passò una birra, era calda. Ne presi una fresca, di quelle in frigo. La barista, napoletana doc, me la strappò di mano e bevve un goccio dalla bottiglia.

– Ué guagliò – ma che fai, il muso?

– Ma no, Lucia, è solo lo stupore, – mentii – non me l’aspettavo, davvero. Siete tutti molto carini. Basta che adesso non lo venga a sapere il direttore. M’ero dato malato.

– Kettennefutte’a tè. Sei il gerente, no? E poi, senza di te quel bar non fa una lira. Di un po’ – aggiunse sogghignando – ma con quale delle due tedeschine te la fai, eh? Hi, hi, hi.

Non replicai. Ripresi la mia birra e la finii d’un fiato, intanto che Ricky imburrava i pancake e li farciva col salmone.

– Qualcuno può occuparsi della torta? – gridò – Mancano le candeline. Chi ha pensato alle candeline?

Insomma, ero l’unico storto. Gli altri, sembravano tutti contenti e sprizzavano buon umore mentre io rosicavo.

– Ehi, è il tuo anniversario!!! – era Steffi, ancora mezza nuda – Non sembri molto contento! Fai uno sforzo che ce lo siamo meritate, e sorridi. Il sorriso combatte lo stress, rinforza il sistema immunitario e aiuta a campare più a lungo. Pensaci!

Mi cinse alla vita, sotto lo sguardo divertito di Luana. Profumava di bagnoschiuma. Una roba mielata, dolce e sensuale. Le sensazioni nel gustare la completezza di quell’abbraccio le conservo ancora intatte. Sono in angolo della mia memoria e ogni tanto, quando sono un po’ giù di corda, riaffiorano, a ricordarmi che nulla è impossibile. 

Mi sciolsi. Rimossi dalla bocca quella smorfia imbronciata e l’allargai in un bel sorriso, sperando, comunque, che la masnada sloggiasse presto, almeno quello!

***

Le lancette del vecchio orologio murale toccarono le undici. Ricky, l’affamato, scovò il mio ragù di carne e lo mise a scaldare in un padellone. Afferrò due pacchi da un kilo di spaghetti e mi fece segno se poteva cuocerli.

– Certo – dissi – Due fili di pasta ci vogliono, dopo lo stuzzichino. Fai pure.

Applaudirono in molti fra gli schiamazzi, i canti a squarciagola, tamburellii su pentole e bottiglie, continuando stoici a mandar giù tutto quello che passava loro sotto il naso: vino, birra, vodka, sidro di mele, fernet, grappa.

Intanto i vicini, dei turisti inglesi che pagavano un occhio della testa per un bungalow pari al mio, cominciarono a incazzarsi e a urlare: shut up! That’s enough (ora basta), minacciando di chiamare il guardiano notturno, che invece era lì con noi abbracciato a un formato magnum di vino rosso.

Di sobrio, o quasi, c’ero solo io, preoccupato e teso per il chiasso e rosicchiato da un tarlo ossessionante: Luana e Steffi, irresistibili in quella tenuta succinta, così vicine e a portata di mano, ma a ugualmente lontane, sfuocate e indistinte in quel caos di gozzoviglianti.

Così, me ne stavo con un sorriso fasullo, spiluccando salatini e pistacchi, appollaiato su uno sgabellone da bar in fondo alla cucina; cercando di scambiare sguardi complici e carezzevoli con l’una o con l’altra, nella speranza che l’attesa mantenesse, o ancor meglio rinforzasse, la tensione sessuale creatasi poc’anzi, soprattutto con Steffi.

A volte, a turno, si avvicinavano, ora con un bicchiere pieno, una manciata di noccioline, una sigaretta accesa, un semplice sorriso o una frase consolante destinata ad acquietare il nervoso e rimontarmi il morale.

Entrambe, avevano capito che la cosiddetta festicciola stava degenerando e si sentivano in colpa per la baraonda.

Luana mi sussurrò all’orecchio:

– Coraggio! Aber du weist (ma lo sai bene): fra poco apre la discoteca e spariranno tutti.

– Si, lo so, ma ‘sto casino mi stressa.

– Credo proprio che tu le piaccia – aggiunse – io la conosco bene, sai? – e mi dette un pizzicotto sul fianco, un po’ cattivo devo dire, di quelli che fanno male e lasciano il segno; quindi mormorò fra i denti: – chissà che non ti prenda una bella cotta! Ti starebbe bene.

Dopo gli spaghetti passò ancora una mezz’ora, un lasso di tempo che a me parve lunghissimo, e, alle undici e trenta, dulcis in fundo, arrivò lui: monsieur Fritz Herbert Bross, il direttore.

Spalancò la porta, restò qualche secondo in surplace, impietrito e confuso; quindi irruppe, a testa bassa, seguito dal vice e dalla capo- reception. Roteò gli occhi all’intorno, mi vide e mi venne sparato incontro: sguardo nero, braccia penzoloni, schiumante e pronto all’attacco.

Mi aveva quasi raggiunto quando una delle cameriere allungò un piede. Un gesto scherzoso, anodino e senza la reale intenzione di completare lo sgambetto; ma era più ubriaca di quanto pensasse e non ce la fece a ritirare la gamba rapidamente. E fu così che Monsieur Bross inciampò, perse l’equilibrio e andò a sbattere contro il parquet in vecchio massello, riuscendo parzialmente a mitigare il colpo con il palmo delle mani. Ma la testa toccò comunque il pavimento e il rumore dell’osso frontale sul legno suonò sordo e grave gelando il cuore dei gaudenti.

Si rialzò in piedi e vacillò un istante, avviando così una liberatoria sghignazzata generale.

– Lei domani fa le valige – fece alla ragazza – E lei, caro mio, l’aspetto in ufficio alle otto in punto. In quanto agli altri, ce ne sarà per tutti, non vi preoccupate! Ed ora via, scattare! In discoteca ci sono solo il disk-jockey e la guardarobiera e sta arrivando gente…Maledetti a voi! Questa me la pagate cara! O se me la pagate…

***

Sdraiato su un letto d’alghe e sabbia, aprii gli occhi. Steffi, seduta su un telo da spiaggia, i gomiti sulle ginocchia e le mani che reggevano il capo, seguiva lo spettacolo di un vento di mare che incalzava le nuvole, pian piano, ad una ad una, mentre la pallida luce del sole affievoliva quella della luna.

Ero l’eroico ammazzasette di una fiaba, al centro del mondo e al riparo da qualsiasi vertigine, con lo sguardo sulle sue spalle scoperte e i capelli fiammeggianti che fluttuavano nell’aria fresca del mattino.

Prima o poi si sarebbe girata e avrebbe incrociato il mio sguardo. Prudentemente, richiusi gli occhi e inalai a pieni polmoni l’essenza del mare mescolata al suo sudore e al suo profumo.

Come indomani di un compleanno stravolto non c’era male e, a parte il disastro provocato dai colleghi, che lei fosse ancora lì mi rendeva euforico. Il rendez-vous delle otto era imminente e il rischio di perdere il posto di lavoro, conoscendo herr Bross, mi pareva più che una semplice probabilità. Ma tutto ciò passava in secondo piano; al momento dovevo solo crogiolarmi in quel raro stato di ebbrezza, duplicato peraltro da un’inaspettata proposta di Steffi: un invito, a Berlino, qualche tempo dopo.

– Non so tu – mormorò, gli occhi sempre puntati sul cielo – io parto a controvoglia, con l’impressione di aver lasciato qualcosa a metà. Per principio, non mi piace essere interrotta, non mi va giù; è come quando stai vincendo una gara ma arriva un acquazzone e sospendono l’incontro, o peggio: ti stai insaponando sotto la doccia e finisce l’acqua calda. Ascolta, se ti va, vieni su da me, in Germania. Mi raggiungi appena puoi. Ho solo una gara, fra due mesi, poi sarò molto disponibile.   

Si girò e, credendomi ancora assopito, mi picchierellò su un braccio e disse: ehi, mi hai sentito?

Mi tolsi un po’ di sabbia dal viso, dai capelli. Un gesto banale, tanto per prendere tempo. Quindi mi sedetti e le sorrisi scioccamente non sapendo cosa dire; le parole dopo tutto sono goffi sostituti dei pensieri e la maggior parte delle volte non rispecchiano i sentimenti. Le presi la mano, assaporando il piacere di quelle dita bianche e morbide e la tirai a me, pensando che raggiungerla al nord era una magnifica idea, ma non riuscii a dirlo subito.

***

I licenziati furono quattro: i tre che avrebbero dovuto essere in discoteca per le undici, e quella dello sgambetto. In quanto a me, herr director depennò dal mio contratto il premio di fine stagione e fui privato dell’unico bungalow assegnato a un lavoratore stagionale, un vero lusso, a sua detta, un privilegio che m’ero fatto stupidamente sfuggire per aver consentito quella gran cagnara nella zona preposta ai turisti. Concluse una sintetica ramanzina con: – il trasferimento è immediato, quindi si sbrighi che il bar apre alle dieci!

Traslocai nell’ora seguente, controstomaco e ancora frastornato, e raggiunsi il resto della squadra nella casa comune: una casermetta maleodorante di muffa, adibita all’alloggio del personale.

Dopo una rapida doccia, mentre mi preparavo per raggiungere il posto di lavoro, spuntò Luana. La intravidi, avvolta nel solito pareo, con baguette e cartoccio di cornetti caldi del minimarket. Mi fece un rapido cenno passando davanti alla mia camera, ma non si fermò. Uscii sul corridoio. Lei oltrepassò Lucia, in tenuta da bar lady e pronta per il turno del mattino, arrivò in fondo e si fermò davanti alla camera di Ricky, il pizzaiolo. Sulla porta si girò e mi guardò con un mezzo sorriso, sembrava dicesse e allora? Stupito?

E voilà! La vita continuava nonostante tutto ed io, per il momento, avrei ripreso a sfacchinare le mie dodici ore consecutive, a testa bassa e in un caldo demenziale. Punto e a capo!

Grazie a Luana, avevo avuto la mia pausa: un’insolita notte, sopraggiunta inaspettatamente a spezzare il grigiore e la piattezza di quel lavoro e di quei giorni di penitenza, dove rabbia e routine si alternavano, scontrandosi rumorosamente dentro al petto, insopportabili come persiane al vento.

Lucia si avvicinò.

– I’ so pront, tu si pront? – chiese, quindi proseguì:

– Hai la faccia schifata. Sembra che ti sia mangiato ‘nu surice!

Aveva l’aria piuttosto divertita. Mi dette una leggera pacca sulla spalla e scoppiò a ridere.

– Il bar ci aspetta, dai che apre alle dieci – riuscì a aggiungere mentre si scompisciava.

– Cacchio! – replicai – questa l’ho già sentita – E scoppiai a ridere anch’io, fino alle lacrime: ero di nuovo pronto all’uso.

L’amico milanese

“Ogni sfiga, dà poi il piacere di raccontarla”

                                              (John Garland Pollard)

Andai all’appuntamento con un certo Mark, redattore capo di una rivista underground, vicino al Ghetto. Pubblicavano fumetti, novelle di fantascienza, satira politica e appuntamenti rock della capitale “in”!

Il Traga volle accompagnarmi, anche se poco convinto, anzi affatto; aveva letto da cima a fondo il periodico e subito sentenziato: “Non c’entra una mazza con la realtà operaia e ancora meno con quella delle donne, dei giovani, dei disperati. È un umorismo macabro, forzato e strampalato. Peccato che ci lavorino disegnatori con le palle! Io, fossi in te, non ci metterei piede”.

C’è da dire che il mio amico milanese (berlingueriano puro e duro) detestava tutto quello che era “troppo” alternativo e anticonformista. Bè, non è che pure lui fosse molto conforme, ma lasciamo perdere. “Son tutte balle”, diceva, “è un business come un altro e voi grulli, che andate sempre e comunque contro corrente, ci cascate come polli mentre quelli si dividono gli utili. Te se’ propri un pirla”!

Girammo un po’ per trovare l’indirizzo. Il sole inondava il centro storico, era zeppo di gente, auto, taxi, lambrette, biciclette. Brulicavano dappertutto, nei viali, nelle stradine e nelle piazzette nascoste, rompendo la flemma e l’intimità della vecchia Roma. La vita sembrava dolce e rosea, ci si scivolava sopra senza pensieri.

Parcheggiammo due isolati più in là, davanti a una tavola calda dal menu, nemmeno a farlo apposta, composto da vivande della cosiddetta cucina “alternativa”: cereali, verdure e legumi, soia, lenticchie, risotto al cavolo rosso e cose di questo genere.

– Tiè! Polpette di miglio – la buttai lì – chissà come sono.

Il Traga storse il muso: – Che non ti venisse in mente! – si affrettò a precisare, e allungò il passo.

Arrivammo alla palazzina. Terzo piano, senza ascensore. Bussammo. Ci aprì una stangona dall’aria compunta o forse incazzata; maglietta scollata a fiori, pantaloni a campana verde mela e zatteroni. Completò uno sbadiglio e ci fece solo cenno di seguirla.

Entrammo in uno stanzone sovraffollato di libri, album, fogli sparsi, un paio di tavoli luminosi da ricalco e due grosse e vecchie poltrone in cuoio. C’era odore di tabacco freddo e caffè ribollito. Gli insetti svolazzavano intorno ad alcune tazze incrostate di zucchero e fondi.

In un angolo, sotto una lampada al neon, c’era Mark. Se ne stava seduto comodamente su una delle due poltrone, sfogliando le tavole di un fumetto, con diniego.

Aveva la quarantina o forse più, occhialetti tondi e spessi di quelli che ingigantiscono gli occhi, guance paffute, capelli ricci con leggera calvizie alle tempie e un inconsueto collo corto e largo, fasciato da un chiassoso foulard verde smeraldo.

– Pare un rospo – sussurrò il Traga – Adesso caccia fuori la lingua e inchioda una mosca al volo.

– Smettila Trag! Nun me fa fa’ figuracce.

Ci avvicinammo. Il sedicente rospo si alzò e ci strinse fiaccamente la mano, senza molto entusiasmo.  Lo sguardo seccato sembrava dicesse che merda, ancora due rompiscatole!

– Dunque, saresti tu quello delle strisce futuristiche – attaccò, senza preamboli – Bene, bene, vediamo un po’ cosa abbiamo!… Sai, qui è TESTA o CROCE, o sei in fase col giornale o niente. Scusa se sono un tantino crudo ma le possibilità di far parte dell’avventura sono limitate. Siamo al terzo numero e ci aspettano tutti al varco: non possiamo deludere, capisci? Qui, usiamo il metodo del brain storming, facciamo emergere idee insieme, con un lavoro di gruppo. Solo dopo si scrive l’editoriale, gli articoli e solo allora i fumettisti attaccano le tavole. Creazione collettiva, si lavora così: Brain storming, ricorda!

Il Traga si avvicinò di nuovo al mio orecchio.

– Brainstorming un corno! – mormorò basso – Questo se la tira e già mi è andato sulle balle! Dai che si va via.

Mark, si allontanò con la cartella dei disegni, si avvicinò alla luce della finestra e tirò fuori la prima sequenza del mio fumetto: una storiella fra il fantastico e l’horror ambientata in un prossimo futuro.

– Quelli del Male, ci sono andati giù pesanti! – fece, pur soppesando il mio lavoro – Il massimo! No, dico, Ugo Tognazzi capo delle BR, una panzana magnifica, inattesa. È questa la via giusta. E noi, dobbiamo cavalcare l’onda, è il momento buono. Se tu hai qualcosa di forte, di veramente scioccante, travolgente, incendiario, allora sì…

Si interruppe, osservando un disegno con un po’ più d’interesse: un plutoniano crestato, color ocra, che cingeva alla vita una ragazza per proteggerla dalla bava acida di un politico ultra centenario.

– Bella ‘sta strip col drago, che gli fa il mostro alieno alla principessa? Non ci sono le finestre di dialogo.

– La sodomizza! – fece il Traga, sempre a mezza bocca.

Questo era il mio amico.  Il suo temperamento cinico e sanguigno gli dettava spesso i peggiori consigli.

– Il testo e le didascalie sono a parte – intervenni – e, per quanto riguarda l’alieno, non fa nemmeno paura e non è ostile. Nel suo mondo è un’insegnante di musica. Guarda, nell’altra tavola tira fuori una specie di sassofono, sta suonando. Un “marziano” buono e romantico, giusto per uscire dagli stereotipi. C’è anche Andreotti, lo vedi? Ora ha 150 anni e deve rassegnarsi a lasciare il potere. E guarda qui!– feci, avvicinandomi e indicando una vignetta a china in bianco e nero – Saranno tutti risucchiati in un vortice creato da un buco nero, tanto per dire che i veri mostri del cielo sono quelli, altro che marziani o venusiani. Aspirano tutto, inghiottono quantità enormi di materia e gas. Se un buco nero si trovasse nella nostra galassia non ci sarebbe in tutta la via lattea una sola forma di vita. Sterilizzano tutto! E noi, cavolo, stiamo qui a perdere tempo in ciance per una cazzata o l’altra e votiamo ‘sti cancri.

– Non male, non male! Però non è quello che è previsto per i prossimi numeri. Per ora, noi puntiamo su un’ironia pungente e corrosiva ma non necessariamente divertente, siamo più sullo scandalismo politico, mi spiego? Non so se hai letto bene il primo numero, ma abbiamo dato addosso a tutti, governanti e governati, buoni e cattivi, una vera ecatombe! Tu le possibilità ce le hai, si vede, disegni bene, ma mi sembri un po’ troppo ancorato alla vecchia fiction.

Detti uno sguardo al Traga. Era lui il marziano truce. Anzi, era un buconero. Fra poco lo avrebbe risucchiato, spolpato vivo e avrebbe sputato l’osso dalla finestra.– O.k.- tagliai corto, prima che il mio amico insorgesse. Chiesi: – È testa o croce? Ti interessa o no?

– Non ora, mi dispiace, però la porta non è chiusa. Facciamo una cosa: torna a trovarci, magari alla riunione di redazione. Stai lì e ascolti, annusi, respiri, t’impregni, entri nel clima giusto e magari trovi un’idea …Tu sei di Cinecittà vero?

– Si, è così. Vengo da un quartiere cosiddetto caldo, come il tuo giornale.

– E bè, guarda un po’ se ci trovi un po’ di coca, da voi ne deve girare di quella buona, non ancora tagliata. Se ti va, vieni con quella e riparliamo un po’ di tutto. La redazione si riunisce fra due giorni, hai tutto il tempo. Dai, che ne dici? Contento?

Ero ammutolito. Rimasi qualche secondo in trance.

– Ehi, sveglia! – fece il Traga, schioccando le dita – ti ricordo che abbiamo quell’appuntamento.

– Sì, certo. Adesso andiamo.

Ripresi la cartella con le mie ottanta ore di lavoro per sei tavole 30×40 e ci avviammo all’uscita.  La ragazza seriosa e variopinta ci seguì e aprì la porta. Anche Mark ci seguì. Ci ritrovammo tutti sul pianerottolo.

– Mi raccomando – disse in tono sdolcinato – vieni a fine settimana e, mi raccomando, non dimenticare quella cosetta!

“Eccheccazzo! – pensai – insiste ancora!”

Ma fu il Traga a reagire. Si girò all’improvviso e ruggì, alzando il dito medio:

– Ma va a ciapal in del lisca (vai a prenderlo in quel posto) pallone gonfiato! La coca…tsk! Bella roba! Magari pure gratis, in cambio di una mezza possibilità di apparire su ‘sto giornaletto del menga. Cercatela da solo, sborone! E mandatela su per l’osso sacro.

– Che vuoi dire?! – rintuzzò l’altro – Non credo di aver capito bene! Puoi ripetere?

– Vallo a chiedere alla mamma, che te lo spiega – concluse il mio amico milanese, mantenendo il medio ben eretto.

Ero un po’ imbarazzato, riuscii a prenderlo per un braccio e spingerlo per le scale. L’altro, ci puntò il dito, lo sguardo torvo e il labbro tremolante, cercando senz’altro una battutina “brillante” per non restare come fesso. Ma non la trovò. Restò lì impalato sul ciglio della porta, le guance rosse ora ancora più gonfie e gli occhioni sgranati. Cra, cra, avrebbe voluto dire, cra, cra. Ma il gracidio gli restò nel gozzo. 

Il treno di mezzanotte

 “Nulla è più visibile di ciò che è nascosto”. Confucio.

 

Bisognava andar via a tutti costi. Come, era uguale: con l’auto di lui o anche a piedi, in bicicletta, a dorso d’asino, qualsiasi mezzo sarebbe andato bene. L’essenziale era sparire completamente, svanire come fumo, come un sogno, come neve al sole.

Clara, dette un’ultima occhiata in giro. Lui, steso sul divano, aveva gli occhi chiusi. Dopo l’intorpidimento, nel sonno, sarebbe passato al collasso. Il lento veleno, aggiunto al potente sonnifero, avrebbe fatto effetto più tardi. Quando, non era prevedibile poiché la dose somministrata era approssimativa. L’estratto di foglie di oleandro, quello giallo, il più tossico, diluito in un solvente e poi concentrato, era del tutto empirico e non se ne poteva valutare la violenza. Ci aveva lavorato duro e a lungo per ottenerlo. Aveva letto, si era informata e l’aveva realizzato, da sola. L’oleandro, il veleno dei poveri, avrebbe assicurato a Jo una fine relativamente dolce: la morte invisibile, un autentico colpo di genio!

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Si avvicinò e l’osservò da vicino. Era bello il maledetto, bello e intrigante, ma dannatamente egoista e manipolatore, con quel suo ego smisurato. Ripensò a quella, che per lei, era stata la più dolorosa fra tutte le delusioni:

–          Vuoi un figlio, ma stai scherzando? Sono appena riuscito a mettere le mani sull’azienda. Ho scavalcato e messo ai ferri vecchi l’ex dirigente. Ci ho sgobbato per anni e adesso voglio raccoglierne i frutti. Un marmocchio fra i piedi, Dio che disastro. Se avessi un briciolo di buon senso, non dovresti nemmeno parlarmene.

Lei, non aveva risposto subito, con quel nodo che gli chiudeva la gola ogni qual volta che doveva chiedergli qualcosa. Aveva dapprima abbassato lo sguardo sui mocassini Gucci di quello stupido pretenzioso. Lo odiò, o se lo odiò!

–          Un figlio è quello che mi avevi promesso purché io abbandonassi mia madre e venissi a vivere con te, qui, in questa casa sperduta, lontana da tutto e tutti. Tu viaggi, vai, vedi gente. Sparisci giorni interi. Ed io?

–          E tu? E tu, non sei pronta. Sei rimasta la sempliciotta di una volta. Non fai sforzi, non avanzi, non ci metti del tuo. A volte sembra che lo fai apposta, oppure ti piace, eh? Sai che con me così non ci vieni. Ti voglio travolgente, seducente, sexy, ma tu punti i piedi, ti piace restare acqua e sapone, è così? Ma non siamo più ai tempi della Loren, eh paperina? Il look oggi è ben altro, dev’essere aggressivo, dirompente. D’altronde, è già deciso, al più presto rifacciamo i seni. Due belle mammelle a goccia, che le tue sono asimmetriche. Immagina il figurone in abito da sera. Il figlio, quello, può aspettare.

Cielo, pensò, mi stava completamente plagiando. Voleva trasformarmi in una di quelle barbie tutto fisico e niente cervello. Un po’ alla volta, con programmata e crudele lentezza; ed io, la scema, a sguazzare nelle sue acque torbide. Perché? Perché l’ho lasciato fare? Mancanza di autostima, sensi di colpa? Perché diavolo mi sono sempre sentita in debito verso questo tiranno?

Spense la luce del corridoio, infilò la giacca di lana, raccolse la borsa, aprì la porta e sgaiattolò fuori nel buio.

Con un po’ di fortuna avrebbe preso l’ultimo treno. Ce ne doveva essere uno intorno alla mezzanotte. L’avrebbe portata lontano, forse nel sud, se ricordava bene. Nel sud, ma quale sud, al sud di dove? Ebbe un attimo di smarrimento, la memoria si stava indebolendo, persino pensare le rimaneva difficile. Forse a causa di quelle due piccole sorsate del Bellini avvelenato che aveva dovuto mandar giù.

–          Solo un bicchiere – aveva replicato al suo invito – per farti compagnia, poi provo a dormire che ho un forte mal di testa.

La confusione permaneva, a tratti la faceva vacillare. Scese le scale tenendosi al corrimano. Si fermò un attimo a osservare la bruma salire dalla terra umida del piccolo giardino, invaso dalle camelie in fiore. Le sue camelie! E gli oleandri gialli…

Guardò la serra. C’era ancora la luce accesa. L’aveva senz’altro dimenticata quel pomeriggio. La piccola oasi fertile e rigogliosa era l’unico rimpianto che aveva. Il suo eden in miniatura, il suo rifugio, pur di non stare in casa a girare in tondo ed autocommiserarsi.

Nel parcheggio, andò verso l’auto di lui. Sapeva che le chiavi erano dietro l’aletta parasole. Ci pensò su un attimo – “Al diavolo pure la sua macchina” – decise, quindi voltò i tacchi e si allontanò rapidamente.

L’oscurità dello stretto sentiero di campagna e la nebbia, la ingoiarono nascondendola al resto del mondo, quello stupido e fasullo mondo dal quale stava correndo via. La notte, ovattata nel silenzio, l’accolse, complice e benevola.

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***

Aveva ancora un piede sul predellino quando il treno cominciò a muoversi.

–          Non ha bagagli? – chiese il capotreno, mentre le porgeva la mano per aiutarla a montare in carrozza.

–          Oddio! In effetti ne avevo uno. Non importa, questo treno non posso proprio perderlo.

–          Va da sé, signorina, inoltre questa è l’ultima partenza.

–          Ad ogni modo, nella borsa non c’era nulla di importante, solo un cambio. A proposito, non ho avuto il tempo di fare il biglietto.

–          Prenda posto nel primo scompartimento, è vuoto. E non si preoccupi, passerò dopo e regolarizzeremo. Dove scende?

–          Al capolinea – rispose lei, non conoscendo affatto la destinazione del treno.

–          Immagino abbia freddo, ha le mani completamente gelate. Le porterò una coperta.

Clara raggiunse il corridoio e entrò nello scompartimento. Tirò le tendine, si tolse la giacca e si sedette.

Una certa sonnolenza cominciò ad avvolgerle i sensi. I piedi le dolevano, fece volar via le scarpe.

Speriamo che non ho dimenticato altro – pensò – soprattutto i soldi.

Sfilò dalla tasca il piccolo borsello portadocumenti e controllò. Grazie a Dio ci sono.

Li posò sul sedile e li contò: duemila euro in biglietti da cento. Poi tirò fuori la carta d’identità. Osservò con tristezza la sua immagine di qualche anno prima: era semplice e sicuramente anche ingenua, ma bella e piena di sogni. Ora, aveva un aspetto assurdo: taglio ad onda, “super wawe” l’aveva chiamato l’acconciatrice della casa di moda, e per di più color platino! E poi, trucco pesante e sopracciglia tatuate. Anche quelle gli aveva imposto.

–          Hai due archi di peli che sembrano spazzole…- l’aveva quasi aggredita, usando un tono acido e sbeffeggiante -… E quando le spunti, ancora peggio, restano ispide come le setole. Bisogna far qualcosa, urgentemente.

E poi, la trovata geniale: – Ti porto in città e facciamo un make-up indelebile. Offro io. La mia segretaria se ne occuperà. Vedrai, piaceranno anche a te, eh paperina?

Te la do io la paperina, caro mio! Guarda cosa ha architettato la tua paperina!

Che altro c’era? Ah, sì, l’agendina e il biglietto da visita del mostro, il sedicente pigmalione, quello che avrebbe dovuto modellarla, migliorarla, istruirla culturalmente, fare della bella popolana un “delizioso mannequin”, come diceva lui, e una signora di mondo, ma in fondo cercava solo di soggiogarla, controllarla.

Lesse il cartoncino ad alta voce, imitandone l’inflessione affettata:

“Giovanni Ponte – Fashion Manager

 Responsabile sviluppo

performance e costing settore moda”.

Prese la matitina dell’agendina e aggiunse “figlio di buona madre”.

–          E adesso addio!  – esclamò – Chissà se all’inferno troverai un’altra stupida come me.

Si allungò sul sedile e chiuse gli occhi. Ripensò a quanto era bello, da bambina, starsene sdraiata sul pavimento a leggere o giocare con quattro vecchie cose, senza nessuno intorno, immersa nella sua fertile fantasia.

Gli venne in mente Giacomo, il babbo, e poi, lo sferragliare monocorde del treno la riportò a quando, allora appena tredicenne, si recava nella grande città. Una visita al papà lontano. Un’andata e ritorno maledettamente breve, dove quella strana gioia graffiante la scombussolava tutta non appena lo intravedeva, intabarrato nel vecchio e pesante giaccone marinaio, sotto la solita pensilina, al riparo della perenne pioggia di quegli inverni rigidi.

L’emozione la sommerse. Il tempo, ora, le sembrava sospeso a quegli spazi e a quei binari, tra il fischio di partenza, lo stridio delle fermate intermediarie e i battiti di cuore che acceleravano all’annuncio dell’arrivo in stazione.

Ora, il treno entrava e usciva dalle gallerie. Dove andava? Il bigliettino scivolò via dalle sue mani. Dischiuse un istante gli occhi e, come un naufrago esausto che tocca la riva, sorrise e si addormentò.

***

Jo, dormiva senza dormire, con i pensieri, i perché e i dubbi che penetravano e si conficcavano nel cervello come lame taglienti. Era infuriato e al contempo perplesso. Non riusciva a capacitarsene: come aveva potuto quella ragazza così sempliciotta architettare una morte così laboriosa?

Fortunatamente, se n’era accorto in tempo. Clara aveva messo il veleno nella coppa con il succo appena estratto dalle pesche, ma lui era passato davanti alla cucina e l’aveva vista mentre travasava cautamente e con i guanti da cucina, quello strano liquido dal colore insolito, limaccioso. Aveva pensato subito a qualcosa di tossico, nocivo; quindi era tornato in salone e aveva stappato lo champagne, con apparente nonchalance ma in fondo turbato. Lei era poi arrivata con l’elegante vassoio in porcellana e i calici pieni a metà.

–          Prendi un po’ di ghiaccio che il succo non è abbastanza fresco – le aveva ordinato – Il Bellini a me piace gelato, lo sai. Dovresti prepararlo prima e poi metterlo in freezer, quante volte te l’ho detto! A proposito, il maquillage con effetto fumo, vedi, ti dona da Dio. Adesso gli occhi risaltano e sembri anche più sexy. Son contento che cominci a truccarti più spesso. Questo sì che merita un bel brindisi.

 Quando lei era tornata dalla cucina con i cubetti di ghiaccio, aveva già scambiato i bicchieri.

–          Allora, cin?

***

Il treno procedeva spedito. Verso dove, era ancora un mistero, magari avrebbe avuto una bella sorpresa, una città piena di sole, di luce, e, perché no, con il mare vicino, chi lo sa. Doveva assolutamente chiederlo a quel signore, se e quando sarebbe passato, giacché fino ad allora non s’era visto nessuno su quel treno insolito, vuoto, leggero come un enorme giocattolo di latta.

Sentì il peso di una coperta sulle gambe. Si era appisolata o aveva dormito a lungo? In effetti, non aveva altro desiderio che lasciarsi andare in un sonno profondo, quasi letargico. Si, dormire le faceva bene, l’acquietava, dissipava i fantasmi in agguato fra le ombre della propria insicurezza.

Il capotreno aprì la porta distogliendola dai suoi pensieri.

–          Coraggio! – esordì – Siamo arrivati. Guardi fuori, è già mattino, vede? Il ritorno è previsto fra un’ora. E, questa volta, cerchi di essere puntuale, mi raccomando.

Quale ritorno? –  si chiese – non avrebbe fatto mai e poi mai marcia indietro.

Aprì gli occhi un istante, ma non vide altro che il sorriso glaciale e distaccato di Jo, chino su di lei, mentre la stava sollevando. Sentì i battiti cardiaci distanziarsi l’uno dall’altro. Scivolavano via quasi con eleganza, in un un addio composto, dignitoso, tum, tum, tum, senza fretta, nell’ordine delle cose.

Sarà questa la via d’uscita? – si chiese – Un modo per tirarsi indietro, smetterla di soffrire, essere finalmente liberi? Dove mi sono sbagliata? Perché lui è ancora lì ed io sto partendo?

Poi, di nuovo il rumore delle ruote sulle rotaie. Quel treno, sembrava sferragliasse su un letto di foglie, su delle nuvole. Un raggio di sole attraverso i vetri le si posò sulle mani. Ne avvertì il tepore e la dolcezza.

***

 

Jo, prese il bicchiere di Clara, ne tolse le tracce dai contorni quindi fece in modo che la mano di lei lo stringesse di nuovo, pensando alle impronte. Il suo piano era semplice: trasportare il corpo senza vita nella piccola serra, in fondo al giardino. Accomodarlo sulla vecchia poltrona di vimini, le braccia penzoloni lungo i fianchi e il bicchiere in terra, ai suoi piedi. Un suicidio tutto femminile, al veleno.

–          Ti credevi furba, eh paperina – le sussurrò, mentre la sollevava a forza di braccia – Se non è oggi, prima o poi ci avresti riprovato; allora, meglio tu che io.

Compì il tutto con gesti rapidi e precisi e in meno di un’ora ebbe finito. Ed ora, si disse, prima di chiamare i soccorsi e la polizia, fare il punto della situazione, sistemare le cose in modo plausibile. Nessuna sconsideratezza, nessun rischio. E, soprattutto, non toccare la centrifuga e il boccale con il resto del succo. Al bisogno, avrebbero trovato solo le impronte di lei.

Aveva ancora il fiato corto, era affannato, sudato. Spostare il corpo di Clara lo aveva sfinito ed ora aveva una gran sete, ma anche fame. Prima andò in camera da letto, trovò la borsa di lei, pronta per la partenza, la svuotò e rimise i pochi abiti nell’armadio. Quindi andò in cucina, prese un’acqua tonica e la bevve d’un fiato.

Dette un’occhiata al resto, nel frigo: pollo freddo, aspic di verdure, gamberoni lessi, carpaccio, un mucchio di cose buone e, il massimo, la torta al cioccolato fondente, la loro passione.

–          Grazie paperina – esclamò ad alta voce – Immagino che questa te la saresti sbafata da sola, dopo la mia morte.

Ne tagliò una bella fetta e la intiepidì al micro-onde, aprì un’altra acqua tonica e si accomodò nel salone, ora sgombro, e, prima di attaccare il dolce, prese il cellulare e compose il 113.

***

 

Fu un certo Vitiello, brigadiere di pubblica sicurezza, che rinvenne il corpo esanime del signor Ponte, sdraiato bocconi sul pavimento.

–          Quando ha chiamato? – chiese all’agente che lo aveva seguito nel salone.

–          Alle sei. Venti minuti fa, brigadiere.

–          Dai un’occhiata in giro e poi scendi di sotto. Da qualche parte, dovrebbe esserci una donna. È così che ha detto al telefono: ho trovato la mia compagna in fin di vita.

–          Ma il morto è un uomo brigadiè, mica una donna.

–          Ascolta! l’ambulanza sarà qui da un secondo all’altro. Fatti un giro e alla svelta.

Non si vedeva a un passo, la notte s’era lasciata dietro una spessa coltre di nebbia. L’agente reperì la fioca luce proveniente dalla serra, si avvicinò, entrò e trovò Clara riversa sulla poltrona da giardino.

***

Una vecchia littorina degli anni ’80, pensò, credevo non circolassero più!

–          Dica un po’, dov’è diretto ‘sto vecchio aggeggio? – chiese alla capotreno – Qual è la prossima fermata?

Anche lui, aveva fatto gli ultimi passi di corsa per afferrare il convoglio.

–          Buongiorno, in primo luogo. Lei mi sembra un po’ smarrito, sa? Questo treno non fa fermate, non ne è al corrente?

–          No che non lo so. Non so nemmeno dove diavolo va!

–          Quando si arriva in stazione di solito è per prendere un treno e si sa dove si deve andare. Questo è il primo del mattino, va al nord. Per il sud c’è quello di mezzanotte, fa un’andata e ritorno. Ma non credo che lei dovesse prendere quello, non ha proprio l’aria di uno che deve andare a sud, e tantomeno di uno che debba tornare indietro, o sbaglio?

–          Non capisco un’acca, cosa sta dicendo? E di che aria sta parlando, perdio!

–          Lei ha un tono pieno di arroganza, ma questo lei lo sa, glielo avranno detto in tanti, no?

–          Lasci perdere, è meglio. Piuttosto, mi dica: come faccio a rientrare? Ci sarà pure una sosta, una coincidenza da prendere da qualche parte.

–          Glielo ripeto. Non è prevista nessuna fermata e nessun rientro, ma non ci sente? Lei non è uno a cui piace ascoltare la gente, vero? Comunque, adesso prenda posto. Il primo scompartimento è completamente vuoto. Vedrà, non la disturberà nessuno.

Jo, decise di mettere fine alla discussione. Borbottò qualcosa, alzò le spalle e s’infilò nel corridoio. Il vagone era piuttosto freddo e lui aveva indosso solo la camicia e il girocollo in cachemire.

C’era un finestrino aperto. Prima di chiuderlo, si sporse. Il convoglio era appena uscito dalla stazione e già filava veloce nella pianura brumosa, allontanandosi ineluttabilmente dal borgo. Che stava succedendo, qual era la ragione di tutto ciò? Non riusciva a venirne a capo.

Lo sferragliamento del convoglio si mischiò a un vago vocio, qualcuno stava parlando non molto lontano, forse in uno scompartimento vicino.

La voce era rauca e monocorde, con un leggero accento meridionale:

–          Brigadiere Vitiello, signor tenente. La chiamo dalla villetta dei Ponte. La cosa è incomprensibile, abbiamo trovato due corpi e non uno, secondo me avvelenati. Mi trovo davanti a un tipo con la bava alla bocca mista a cioccolato. Sembra esanime. Forse avremo bisogno del legista e il resto della squadra. Non so se l’ambulanza servirà a qualcosa, questo mi sembra bello e che andato. Se il medico stipula il decesso ci sarà bisogno della scientifica, sennò li carichiamo entrambi e via all’ospedale.

 Jo capì, e di colpo dette un senso a tutto quel trambusto, al treno, al veleno e alla torta al cioccolato. Cristo, mi ha fregato alla grande! – pensò. Ora, avrebbe voluto urlare, dire qualcosa, sapeva che aveva pochi attimi per farcela, ma era come paralizzato. Solo un’infinita parte del cervello sembrava attiva, in vita: un’ultima fioca fiammella in un angolino della coscienza. Il cuore, quello, aveva già smesso di battere. Jo Ponte, fashion manager, figlio di buona madre, si stava spegnendo.

***

L’ambulanza sobbalzò ripetutamente sulla stradina di campagna. Una piccola lacrima le scivolò dagli occhi, colò sulle guance tingendosi di nero nel mascara e nell’ombretto. Aveva due cannule nel naso, degli aghi nel braccio e lo stomaco in fiamme. Ma che importa, se l’era cavata e a buon prezzo. Il prezioso antidoto, ingerito in cucina pochi attimi prima dell’arrivo di Jo, aveva funzionato. Ripercorse, con sentimento di giusto orgoglio, la seconda fase del piano: farsi vedere mentre diluiva il veleno, proprio così. Questo lui, dall’alto della sua presunta brillantezza, così pieno di sé e di superbia, non l’avrebbe mai immaginato. A questo scopo, aveva temporeggiato a lungo in cucina, sapendo che quando sarebbe uscito dal bagno l’avrebbe vista. E aveva scommesso, scommesso con sé stessa, pericolosamente, certa e convinta di prevedere esattamente la sua reazione. Jo, non avrebbe detto nulla, nossignore, ma avrebbe preso la cosa come una sfida, un’ennesima partita da vincere, e avrebbe cercato il modo di dargli scacco e affermare così, ferocemente, la propria superiorità, a rischio di giocare con la vita e la morte.

Ora era felice, sottosopra ma felice. Persino il suono emesso dalla sirena gli parve benefico, salutare. Non l’aveva mai gradito così tanto. Restava solo il malincuore di non poter scendere e correre, correre a perdifiato, in quella brughiera non più avversa, dove il sole dissolveva la nebbia.

 

Uno che vola di notte

“Nulla è più democratico del sogno. Garantisce a tutti il diritto di volare”. (Da Twitter).

“Si spinse fino al ciglio e osservò il panorama che si perdeva all’orizzonte, un susseguirsi di monti e rilievi verdeggianti e di colline che si degradavano a valle, carezzate dai primi raggi del sole.

Stranamente, gli sembrò uno spettacolo triste, pieno di malinconia, ma solo perché non poteva rivelare quel segreto a nessuno, solo per quello. Oramai, si stava condannando alla solitudine, per forza di cose. Che altro avrebbe potuto fare? Con chi avrebbe mai potuto condividere quel mutamento, quella bizzarria. E poi, perché proprio lui? E quanto sarebbe durato? A chi altro era stato dato? Era solo su terra? Un vero casino!

Si tolse l’ampio soprabito, sotto era a torso nudo. Il vento fresco dell’alba gli dette i brividi e stuzzicò le ali ripiegate sul dorso. Le spiegò, serrò le mascelle, poiché in fondo era ancora decisamente impacciato, e nell’istante in cui stava per spiccare il volo” …

Il borbottio della moka mi scuote dal mio riepilogo. Mia moglie sta preparando il caffè, buono come pochi. Apro gli occhi ed esco dolcemente dal dormiveglia del mattino.

– Ci risiamo, ho ancora sognato di volare – le dico.

– Quante volte è successo? – mi chiede – decine, magari di più. Ogni tanto me la ritiri fuori.

– Mi porto dietro questa cosa dalla nascita o dall’infanzia, come il peccato originale – gli rispondo. A volte ho sognato di essere su un’astronave, in una specie di viaggio interstellare. Arrivo in un posto, un pianeta chiaro e felpato, senza alcun rumore, dove volano tutti: animali, uccelli, uomini. Ci sono persino degli alberi che galleggiano in aria, ci pensi?

– Pensa che traffico – mi fa lei – tiè, bevi il caffè e riscendi che oggi abbiamo un sacco di cose da fare.

Non è semplice, penso, convivere con una donna oltremodo realista e con i piedi ben ancorati al suolo. Ma poi rifletto, sorseggiando il caldo elisir del mattino. Forse per lei è ancora meno facile, devo ammettere: casa, lavoro, figli e in più uno che vola di notte. Bisogna saper gestire, che diavolo!

Lei mi versa dell’altro caffè, riempiendo la tazza fino all’orlo. Do una bella sorsata e subito dopo mi gratto la schiena, con vigore, là dove mi prude.

Baciami all’infinito

 

 “Per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte”. (Khalil Gibran)

Era stufo e aveva un infinito bisogno di pace, di normalità, di leggerezza. Quella sera avrebbe proposto un buon film a Elvira. Davano Cuore Selvaggio. A lei piaceva Nicolas Cage e poi c’era anche la Dern, e a lui piaceva lei, così la scelta del film avrebbe messo d’accordo entrambi, per una volta! Un diversivo nel normale andamento delle cose, o piuttosto una tregua, vista l’intensità e il numero sempre più crescente delle litigate.

                                                                         ***

Lei era in cucina, seduta di spalle a cavalcioni su una vecchia sedia, ancora e sempre con la solita sottoveste rossa. Aspirava fumo da una sigaretta e ascoltava la radio, a volume basso, quasi in sordina.

L’aria della Carmen e l’odore di un piatto pronto, di quelli da ripassare pochi minuti al forno, aleggiavano nell’aria. Forse è pizza, pensò Tommy, o lasagne precotte, nella migliore delle ipotesi.

In casa oramai non c’era più nulla di fresco, a parte l’acqua. Raramente, Elvira andava all’ipermercato e caricava l’auto di prodotti surgelati, tre o quattro casse di vino a buon mercato e stop! Le sue uscite finivano lì. Nemmeno due arance dal fruttivendolo di sotto, o un’insalata fresca, più nulla. Il resto del tempo stava chiusa in casa, a bere vino e fumare sigarette con sottofondo d’opera o musica classica. Il pane lo portava lui, ogni sera al rientro dal lavoro.

Bei tempi – rifletté – quando preparava, quasi ogni sera, una delizia dietro l’altra: zuppa di pesce, cozze, ravioloni di mare, branzini al forno… Dio, quanto mi mancano!

Posò il filone sul tavolo. Qualcuno grattava ai vetri della finestra. Era il gatto, ansioso di rientrare in casa.

Lei si alzò e notò il mazzolino di fiori in una mano del marito.

Lui sorrise e le annunciò il programma della serata: una cenetta da Palumbo, a mangiare antipasti di mare e gamberoni, e poi all’Odeon per quel film che sarebbe piaciuto ad ambedue. Per coronare il tutto le porse i fiori e le sfiorò le labbra con le sue.

–          E questo lo chiami bacio? – reagì Elvira, secca e provocatoria, i seni tondi e ancora sodi fuori a metà dalla sottana. – Puzzo d’aglio o cosa? O la lingua te la tieni per le altre?

Tommy alzò gli occhi al cielo e sbuffò. In effetti, in quel bacio, aveva sentito l’odore del vino. Si guardò in giro e vide la bottiglia vuota sul lavello e un’altra mezza piena sul tavolo. Alzò le spalle scoraggiato e andò in camera. Signore, fa che questa serata non si trasformi in un inferno! – chiese al cielo. Appese la giacca alla stampella e la infilò nell’armadio. Si sedette sul bordo del letto. Di colpo si sentì stanco, estenuato dal solito andazzo monotono e scontato di quella loro vita a due. Non ne poteva più, poggiò la testa sul cuscino e provò a riflettere.

Elvira apparve sulla soglia della porta. Lui la osservò, da un fine spiraglio lasciato alle palpebre chiuse. Era bella, anche in disordine manteneva intatto quel fascino ora languido ora aggressivo ravvivato da due enormi occhi scuri. Finse di non vederla, il tempo di trovare un’idea e decidere il da farsi. Lei roteò sui talloni scalzi e tornò in cucina. Accese una sigaretta, prese i fiori e li gettò nella pattumiera.

–          Figlio di puttana – disse – non te la caverai sempre così.

Lui non sentì. Quelle dieci ore di lavoro, tutte in piedi, lo avevano affaticato più del solito. Sentì il sonno pizzicargli gli occhi. Devo reagire, devo farcela, pensò, tentando di combattere l’assopimento.

***

Aspirò una gran boccata d’aria, si alzò e la raggiunse. Le cinse i fianchi e ci provò di nuovo e questa volta con la lingua, ma non gli venne bene. Il risentimento covava ancora, cieco e sordo. Una ruggine vecchia di un anno, forse più, da quel semplice e stupido bacio alla Molly e la ripicca quasi simultanea della moglie che s’era infilata nel letto di quell’accidenti di psicanalista. Da allora, stringerla fra le braccia, baciarla, amarla, non era più come prima. E poi, tutto quel bere, santo cielo, quel perenne fiato alcolico che a lui proprio non andava giù. Lei se ne accorse.

–          Vedi? – fece allontanandolo – Ti dà fastidio pure se bevo un bicchiere o due.

Ebbe un gesto di stizza e tirò completamente fuori i seni.

–          E questi, nemmeno questi ti eccitano? – riprese, con un riso amaro. Li massaggiò e rimescolò come fossero l’impasto di un pane.

–          Allora, sono buona per la rottamazione, è quello che pensi?

Lui la guardò incredulo e imbarazzato. Pensò è già ubriaca! Lei continuò:

–          Non ho ancora quarant’anni caro il mio Tommy, nemmeno quaranta, ti fosse sfuggito. Sono mesi che non mi tocchi con la scusa della mia presunta nevrosi. Ma nessuno mi ha mai vietato di fare sesso, ti assicuro, anzi! È più che raccomandato.

Riaggiustò i seni nella scollatura, si avvicinò alla finestra e l’aprì. Il gatto entrò e si strusciò contro le sue spalle. Lei lo carezzò, fissando i tetti delle case, lo sguardo lontano, svagato. Respirò l’aria umida della sera poi si girò e attaccò di nuovo, senza nessuna enfasi:

–          Stai mandando a puttane vent’anni di matrimonio, giorno dopo giorno, come un veleno lento, quasi indolore. Ma non mi finirai, sappilo, piuttosto sono io che ti ammazzo.

Tommy aveva la gola secca, irritata, aveva fumato più del solito. Portò la bottiglia d’acqua alla bocca e bevve alla cannella.

–          Dai, preparati e non dire stronzate. Cerchiamo di passare una serata come si deve.

–          È il colmo – ribatté lei – non gli piace baciarmi ma mi invita a una seratina da innamorati. Sei un vero cazzone.

–          Elvira, cosa vuoi che ti dica, sono stanco, ho lavorato tutto il giorno, ho la bocca cattiva. Magari dopo una buona cenetta, il cinema. Insomma, mettici un po’ del tuo, ti prego!

–          Cribbio! Giro seminuda per casa e non mi degni di uno sguardo. Faccio la doccia con la porta aperta, vengo a letto nuda. Mettici un po’ del tuo, dice, a me, mica a lui, a me!

–          Piantala Elvira. Lo sai no? Si comincia così e non si sa come finisce. L’ultima volta hai provato a darmi una forchettata sul collo, ricordi? Lo sai che quando la rabbia ti monta al cervello ti infiammi e perdi il controllo.

Lei si avvicinò al tavolo, c’erano piatti, coltelli e forchette, bicchieri, l’acqua, il vino, tutto già predisposto per la cena.  Agguantò la forchetta e la piantò con rabbia nel pane, quindi prese la bottiglia di rosso e ne trangugiò un quarto. Lui le posò la mano sulla spalla.

–           Ascolta tesoruccio, perché non cerchi di smettere con questo bere? Quanto ne hai mandato giù, eh? Quella roba per la depressione si concilia male col bicchiere, lo sai.

Lei non rispose subito. Si girò, lo fissò un attimo e cercò di offenderlo:

–          Hai una faccia da cinghiale. Un cinghiale con gli occhi piccoli, porcini, le sopracciglia folte con i peli duri, la barba incolta fino al collo. Sei pure grasso, i fianchi e la pancia non ti stanno più nei pantaloni e le mani, persino quelle si sono rimpolpate, e fai pure lo schizzinoso.

–          Insomma, Elvira…

–          Si, sei un cinghiale, un cinghiale puzzolente e senza amore. E io odio i cinghiali!

–          Hai ragione. Sono un brutto cinghiale cattivo, o.k.

–          O.k. cosa? Tenti di rabbonirmi? Mi dai il contentino?

–          Ma no, penso che sono proprio un cinghiale, un vero buzzurro, e lo penso davvero, credimi.

–          Ho una gran voglia di spaccarti la testa, ecco di cosa ho voglia. Aprire quella testona nera di cinghiale e vedere cosa c’è dentro.

–          Si, magari un’altra volta. Adesso ti prego, fatti una bella doccia, sistemati un pochino e usciamo. Dobbiamo darci una mossa.

–          Perché?

–          Perché ho prenotato per le otto e non manca molto.

–          Fra poco passano alcune sonate di Chopin o dei valzer, non ricordo bene, e a fine serata trasmettono il flauto magico, alla tele, e mi va di vederlo.

–          Mozart?

–          Mozart, bravo!

–          A che ora?

–          Verso le undici.

–          Bene, allora mangiamo e rientriamo a casa. Niente cinema, solo una buona cena e un buon vinello. Lo sai, da Palumbo ci sono il Cirò, lo Scilla e tutti quei buoni vini calabresi. Se non ti vanno, e se ricordi bene, ha pure il Franciacorta, il tuo preferito.

Lei riprese la bottiglia del vino, ma invece di portarla alla bocca con un guizzo rapido gliela spaccò in testa. Il gatto fece un balzo e schizzò sul lavello, poi s’appollaiò sul davanzale. Gli occhi gialli e sgranati fissarono le prime gocce di sangue, miste a frantumi di vetro e al rosso scadente.

–          Vuoi ammorbidirmi col vino? Ecco che me ne faccio del vino, minchione. Secondo te è quello che mi interessa in questo momento, il vino?

Il tono era calmo e misurato, non lasciava trasparire nessuna emozione.

Tommy, tramortito, piegò le ginocchia e si lasciò mollemente cadere in terra, rovesciando il capo all’indietro. Non un lamento, né un mugolio. Aveva un grosso taglio profondo sulla parte alta dell’osso frontale. Il sangue iniziò a fuoriuscire copiosamente dalla ferita, chiudendogli un occhio. Lei si avvicinò, flemmatica, imperturbabile. Adesso aveva la forchetta in mano. Si piegò, sfiorò col suo alito vinoso le labbra di Tommy.

–          Ed ecco la famosa forchetta, la riconosci? Ti è andata bene una prima volta, ma non la seconda.

Tommy provò ad alzare la mano, ma non riuscì a evitare il colpo. Lo ricevette sulla carotide. Una volta, due, tre. Elvira la lasciò piantata nella gola del marito e si alzò di scatto.

Il gatto miagolò basso e rauco, quindi sfrecciò via, sui tetti, mentre la luna sorgeva quasi gialla sull’orizzonte.

Elvira si avvicinò al forno e lo spense. Quindi alzò il volume della radio: stavano annunciando l’imminente brano di Chopin.

Prese l’agenda, la sfogliò e trovò il numero.

–          Pronto, Palumbo? Sono la moglie di Tommy, sì il giornalaio. Mio marito deve aver riservato un tavolo per due. Il fatto è che non si sente molto bene, allora credo che verrò da sola. Si, grazie! A che ora? Fra un’oretta sarò da voi. Ah, a proposito: ce l’avete ancora quel Franciacorta? Il Ca’del Bosco, si, proprio quello, e l’annata è perfetta. Me ne metta una bottiglia in fresco, a me piace berlo sui 15 gradi.

Riattaccò. Si tolse la sottana rossa, scavalcò il corpo esanime del marito e si avviò verso la doccia.

 Le note del piano risuonarono nel piccolo appartamento.

–          Spring Waltz! – constatò Elvira, piroettando leggera intorno al tavolo – Sempre meglio che un notturno.

 

***

Il cielo era chiaro e il sole si approssimava all’orizzonte. È già l’alba, mormorò fra sé. Quindi, di scatto, si tirò su e guardò fuori dalla finestra aperta.

–          Diavolo! Ho dormito come un ghiro – mormorò, portandosi d’istinto la mano alla fronte.

Non c’era più sangue, più nulla e la forchetta era sparita dal collo. Si girò e vide Elvira, supina sul letto.  Era svestita, nemmeno la sottana rossa.

Andò in bagno e si spogliò. Fece scorrere l’acqua, si lavò i denti, s’inumidì il viso, lo cosparse di schiuma da barba e si rasò.

Allo specchio osservò il cinghiale. Il cinghiale puzzolente e senza amore.

Andò sotto la doccia. L’acqua era buona, fresca e pulita. Si lavò. Infilò l’accappatoio e tornò in camera. Elvira era sempre là, col respiro pesante e l’odore acido del vino.

Si avvicinò e gli si sedette accanto. Lei dischiuse leggermente gli occhi e lo incendiò subito con lo sguardo.

Stava per dirgliene una delle sue, ma lui si chinò e la baciò. A lungo, con ardore. Lei per un po’ restò con gli occhi aperti. Poi li chiuse. Quando li riaprì lui le stava carezzando il viso.

–          E anche ieri ti sei addormentato. Sono entrata e ronfavi come una locomotiva. Altro che gamberoni e Cuore Selvaggio, brutto minchione!

–          Mi spiace davvero. Se vuoi, ci andiamo stasera. Stamattina apro più tardi e ti prometto che chiudo prima delle sei. Sarò meno stanco.

–          Ho sognato che ti stavo lasciando – continuò lei – e altre cose tristi.

–          Io peggio ancora, non ti dico che incubo, ma è meglio che non ne parliamo – rispose Tommy, quindi riprese a baciarla.

Lei si staccò un attimo, lo guardò negli occhi, ora lucidi e intensi. Sorrise e disse: ti prego, baciami all’infinito.

Settanta lire, per un caffè.

“Tutto quello che ho per difendermi è l’alfabeto; è quanto m’hanno dato al posto di un fucile”. Philip Roth

***

“Non ricordo di preciso di quanti anni fa stiamo parlando, all’incirca mezzo secolo, quando incontrai un ragazzo del nord, Herman. Grazie a lui mi avvicinai a una letteratura di un genere nuovo con uno stile secco ed efficace. Scoprii Fante, Mailer, Henry Miller; ma anche Celine, Genet, e più in là Don De Lillo, Bukowski, una bella sfilza di svitati, dalle grandi capacità narrative senza troppi ghirigori: poche parole, per dire quello che si ha da dire. – Finalmente! – mi dissi – e cominciai a divorare quei libri!”.

 ***

Roma, era calma, quasi sospesa nel tempo e dalle finestre delle case usciva l’aroma del caffè, della cipolla che sfrigolava nei tegami e dei sughetti al pomodoro. Il traffico era molle. Uomini e auto avanzavano pigramente, senza fretta e le facce da sonno pazientavano svogliatamente al semaforo di San Giovanni. Tempi morbidi e variopinti. In strada, in molti giravano con la borsa a tracolla o col transistor e c’erano le cabine con i telefoni a gettone. Si andava a zonzo per andare a zonzo, ci si godeva il sole, il caffè, pizza e fichi, la lettura del giornale, ed ogni un piccolo squarcio di tempo libero. Non eravamo ancora allo stress permanente, al vivere per sopravvivere. Non ci avevano ancora spolpato e succhiato il cervello e gli industriali avidi e malonesti, stavano appena iniziando ad avvelenarci. Avevamo ancora sangue buono, senza mercurio e bisfenoli; le api ronzavano libere e in ottima salute e la notte, in campagna ma anche sui prati o in pineta, incontravi una marea di lucciole.

Ma parliamo di Herman.

Se ne stava seduto sul marciapiede, in mezzo a una chiazza di sole, all’inizio del mercato di via Sannio. Lo notai per i capelli arruffati e l’eskimo abbottonato fino al collo in una giornata tiepida, primaverile. Stava leggendo, ben concentrato, con il libro sulle ginocchia.

Alzò la testa.

–          Mi servirebbero 70 lire per un caffè e 70 per il tram – esordì così, senza né ciao e né buongiorno.

–          Davvero? – risposi – E allora?

–          Ho un provino a Cinecittà. Agli studi. Ho già passato il cast e devo girare una scena per Pasolini. Due giorni pagati, ma ora sono a secco e mi sembra lontanuccio.

–          In effetti. Tieni – dissi – ti do qualcosa.

Contai le monete in tasca e racimolai quasi cinquecento lire. Gli detti le sue centoquaranta.

–          Mi è andata alla grande – disse – non so se a piedi ce l’avrei fatta. Manco di forze, non mangio da ieri.

Aggiunsi qualche moneta per un cornetto, arrivai a duecento e mi allontanai.

–          Ehi, aspetta! – gridò – Tieni, prendi questi libri, li ho appena finiti.

Erano un “sogno americano” di Mailer e “una vita piena” di John Fante, un’edizione Mondadori del ’57.

Senti – dissi, i soldi tienili lo stesso. A Cinecittà ti porto io. È lì che abito.

Andammo alla mia piccola e vecchia 500 e scendemmo in quartiere.

Gli mostrai dove abitavo, bevemmo un ultimo caffè in piazza e lo lasciai davanti agli studi.

–          Guarda – disse, prima di aprire la portiera – ho un altro regalino per te.

–          Sì, e cosa?

Tirò fuori dallo zainetto una scatolina d’argento. L’aprì. C’erano due quadratini di carta assorbente.

–          È acido – fece, con un gran sorriso a banana – con questo puoi scendere fino all’inferno, oppure salti diretto in paradiso. Devi provarlo.

Rifiutai, salutai e mi avviai verso casa.

Era una giornata indolente. Inoperosa. Perfetta. Senza lavoro da circa una settimana, potei dedicarmi alla lettura e finire i due libri d’un fiato. Lessi Mailer, aveva un linguaggio aggressivo e sfrontato: mi piacque! Corrispondeva a quello che già cominciava a stuzzicarmi, a rosicchiarmi dentro. E poi scoprii Fante, che non ho più mollato. Davvero una bella giornata, e un bell’incontro.

Finiti quei libri, considerai che era ora di uscire dai classici e lasciarmi andare verso cose più attuali, con un altro tipo di scrittura, un altro ritmo: più rabbia, più febbre, più semplicità. Come in quei due romanzi, spogliati di ogni superfluo, nudi come anime.

Ricordo che mi avvicinai alla scaffalatura che fungeva da biblioteca e osservai alcuni titoli. C’erano, e li ho tuttora, il giardino dei ciliegi e l’uva spina di Cechov, il giocatore di Dostoevskij, il naso di Gogol, diversi libri di Pavese e anche del grande Calvino. Sul ripiano superiore la mia collezione di Urania. Era urgente rimediare!

Andai da Feltrinelli e comprai diversi volumi fra cui “diario del ladro” di Genet, e un altro Fante: “chiedi alla polvere”. Li divorai in due, tre giorni, uno dietro l’altro.

Poi, spuntò di nuovo Herman. Si era ricordato di me e dove abitavo.

Bussò che era poco più dell’alba. Aprii e me lo ritrovai davanti, sempre più scarmigliato. Aveva una busta di cornetti in una mano e un quaderno con la copertina rigida nell’altra. I miei, per fortuna, erano nell’Alto Lazio per il fine settimana.

–          Diavolo! – esclamai – Che ci fai qui, e a quest’ora?

Mi passò i cornetti e infilò la mano in tasca.

–          Ecco! – disse – saldo il mio debito – e mi allungò le duecento lire.

–          Dai, entra che faccio il caffè.

Posò in terra lo zainetto, si tolse l’eskimo e mi seguì in cucina. Puzzava di muffa e frittura.

–          Sono stato dentro – disse – una notte in cella di sicurezza.

–          Ah, sì? E per cosa?

–          Ho rifiutato di dare i documenti a un poliziotto, su un ponte, vicino al Vaticano. Giravo con una bottiglia in mano ed ero sbronzo. Credo di avergli mollato un calcio.

–          Nientedimeno!

–          E lo sai il massimo? In commissariato mi hanno perquisito, ma non hanno trovato quella roba.

–          Quale roba?

–          Gli acidi, cavolo!

–          Beh, meglio così.

–          Me ne restava uno. L’avevo tolto dalla scatolina e inguattato nel colletto della camicia. Sai, al posto di una stecchetta.

–          T’è andata bene.

–          In cella l’ho messa sotto la lingua e mi sono fatto un trip.

–          In cella? Chiuso fra quattro mura? Una ficata!

–          Guarda, ho scritto e disegnato tutta la notte. Mi avevano lasciato anche i pastelli.

Mi passò il quaderno. Lo sfogliai. Tutte le pagine erano riempite: poesie e frasi scritte di sbieco qua e là, spesso intorno a dei bozzetti: un cervello con delle mosche che gli ronzavano intorno o una donna con i bigodini in testa che lanciava fiamme dalla bocca. Fiamme rosse e verdi.

–          È mia madre – disse – la disegno spesso. È un po’ rompiballe ma mi sta molto vicino, soprattutto ora che sono malato.

Finì il caffè. Gliene servii una gran tazza.

–          Che cos’è che non va? Mi sembri in forma, a parte che sei trascurato e sembri uscito da un mondezzaio.

–          Adenoma all’ipofisi. Un tumoretto cornuto, piazzato in un posto scomodo. Proprio sotto al cervello. Ho una gran paura a farmelo togliere ma devo rassegnarmi, l’operazione è inevitabile.

–          E te ne vai a zonzo così, in queste condizioni?

–          Mia madre mi cerca. I dottori mi cercano. Tutti mi cercano. Ero già in clinica e me la sono squagliata. Ma sto rientrando, te l’ho detto è inevitabile: devo farmi affettare la testolina! Diciamo che ho preso il tempo di farmene una ragione. E poi, adesso, con i due giorni da figurante, ho i soldi per il rientro e per qualche panino.

–          I panini nelle stazioni sono orribili. Sono asciutti, ti restano sul groppone, non scendono giù. Ci penso io, qui accanto c’è un fornaio che apre presto.

Gli suggerii un bagno caldo. Ne approfittò. Io andai a prendere due tranci di pizza e scaldai la piccola Fiat.

Poco dopo, lo accompagnai alla stazione. Arrivammo al momento giusto: un treno sarebbe partito di lì a poco. Bevemmo una birra, trovammo il vagone, poi lui salì e sparì per sempre.

Non l’ho più rivisto, né avuto notizie e, se gli hanno tolto bene quel tumore e non ne ha avuti altri, dovrebbe essere un anziano signore come me.

Ho ancora i suoi libri. Li ho letti diverse volte e in epoche diverse, nelle differenti tappe della mia esistenza, sballottati di valigia in valigia, di città in città, di casa in casa, fino ad oggi e in quest’isola, dove alla fine ho preso dimora.

Se per amor del cielo i suoi occhi cadessero un giorno su queste tre pagine, spero che sappia riconoscersi, nonostante il nome preso a prestito, e che si facesse vivo. Ho voglia di darglieli indietro, con tutte le mie sottolineature e le orecchiette agli angoli delle pagine. Lo aspettano, anzi gli spettano, adesso hanno un peso e un valore, quello di “una vita piena”. Chi legge lo sa!