Il treno di mezzanotte

 “Nulla è più visibile di ciò che è nascosto”. Confucio.

 

Bisognava andar via a tutti costi. Come, era uguale: con l’auto di lui o anche a piedi, in bicicletta, a dorso d’asino, qualsiasi mezzo sarebbe andato bene. L’essenziale era sparire completamente, svanire come fumo, come un sogno, come neve al sole.

Clara, dette un’ultima occhiata in giro. Lui, steso sul divano, aveva gli occhi chiusi. Dopo l’intorpidimento, nel sonno, sarebbe passato al collasso. Il lento veleno, aggiunto al potente sonnifero, avrebbe fatto effetto più tardi. Quando, non era prevedibile poiché la dose somministrata era approssimativa. L’estratto di foglie di oleandro, quello giallo, il più tossico, diluito in un solvente e poi concentrato, era del tutto empirico e non se ne poteva valutare la violenza. Ci aveva lavorato duro e a lungo per ottenerlo. Aveva letto, si era informata e l’aveva realizzato, da sola. L’oleandro, il veleno dei poveri, avrebbe assicurato a Jo una fine relativamente dolce: la morte invisibile, un autentico colpo di genio!

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Si avvicinò e l’osservò da vicino. Era bello il maledetto, bello e intrigante, ma dannatamente egoista e manipolatore, con quel suo ego smisurato. Ripensò a quella, che per lei, era stata la più dolorosa fra tutte le delusioni:

–          Vuoi un figlio, ma stai scherzando? Sono appena riuscito a mettere le mani sull’azienda. Ho scavalcato e messo ai ferri vecchi l’ex dirigente. Ci ho sgobbato per anni e adesso voglio raccoglierne i frutti. Un marmocchio fra i piedi, Dio che disastro. Se avessi un briciolo di buon senso, non dovresti nemmeno parlarmene.

Lei, non aveva risposto subito, con quel nodo che gli chiudeva la gola ogni qual volta che doveva chiedergli qualcosa. Aveva dapprima abbassato lo sguardo sui mocassini Gucci di quello stupido pretenzioso. Lo odiò, o se lo odiò!

–          Un figlio è quello che mi avevi promesso purché io abbandonassi mia madre e venissi a vivere con te, qui, in questa casa sperduta, lontana da tutto e tutti. Tu viaggi, vai, vedi gente. Sparisci giorni interi. Ed io?

–          E tu? E tu, non sei pronta. Sei rimasta la sempliciotta di una volta. Non fai sforzi, non avanzi, non ci metti del tuo. A volte sembra che lo fai apposta, oppure ti piace, eh? Sai che con me così non ci vieni. Ti voglio travolgente, seducente, sexy, ma tu punti i piedi, ti piace restare acqua e sapone, è così? Ma non siamo più ai tempi della Loren, eh paperina? Il look oggi è ben altro, dev’essere aggressivo, dirompente. D’altronde, è già deciso, al più presto rifacciamo i seni. Due belle mammelle a goccia, che le tue sono asimmetriche. Immagina il figurone in abito da sera. Il figlio, quello, può aspettare.

Cielo, pensò, mi stava completamente plagiando. Voleva trasformarmi in una di quelle barbie tutto fisico e niente cervello. Un po’ alla volta, con programmata e crudele lentezza; ed io, la scema, a sguazzare nelle sue acque torbide. Perché? Perché l’ho lasciato fare? Mancanza di autostima, sensi di colpa? Perché diavolo mi sono sempre sentita in debito verso questo tiranno?

Spense la luce del corridoio, infilò la giacca di lana, raccolse la borsa, aprì la porta e sgaiattolò fuori nel buio.

Con un po’ di fortuna avrebbe preso l’ultimo treno. Ce ne doveva essere uno intorno alla mezzanotte. L’avrebbe portata lontano, forse nel sud, se ricordava bene. Nel sud, ma quale sud, al sud di dove? Ebbe un attimo di smarrimento, la memoria si stava indebolendo, persino pensare le rimaneva difficile. Forse a causa di quelle due piccole sorsate del Bellini avvelenato che aveva dovuto mandar giù.

–          Solo un bicchiere – aveva replicato al suo invito – per farti compagnia, poi provo a dormire che ho un forte mal di testa.

La confusione permaneva, a tratti la faceva vacillare. Scese le scale tenendosi al corrimano. Si fermò un attimo a osservare la bruma salire dalla terra umida del piccolo giardino, invaso dalle camelie in fiore. Le sue camelie! E gli oleandri gialli…

Guardò la serra. C’era ancora la luce accesa. L’aveva senz’altro dimenticata quel pomeriggio. La piccola oasi fertile e rigogliosa era l’unico rimpianto che aveva. Il suo eden in miniatura, il suo rifugio, pur di non stare in casa a girare in tondo ed autocommiserarsi.

Nel parcheggio, andò verso l’auto di lui. Sapeva che le chiavi erano dietro l’aletta parasole. Ci pensò su un attimo – “Al diavolo pure la sua macchina” – decise, quindi voltò i tacchi e si allontanò rapidamente.

L’oscurità dello stretto sentiero di campagna e la nebbia, la ingoiarono nascondendola al resto del mondo, quello stupido e fasullo mondo dal quale stava correndo via. La notte, ovattata nel silenzio, l’accolse, complice e benevola.

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***

Aveva ancora un piede sul predellino quando il treno cominciò a muoversi.

–          Non ha bagagli? – chiese il capotreno, mentre le porgeva la mano per aiutarla a montare in carrozza.

–          Oddio! In effetti ne avevo uno. Non importa, questo treno non posso proprio perderlo.

–          Va da sé, signorina, inoltre questa è l’ultima partenza.

–          Ad ogni modo, nella borsa non c’era nulla di importante, solo un cambio. A proposito, non ho avuto il tempo di fare il biglietto.

–          Prenda posto nel primo scompartimento, è vuoto. E non si preoccupi, passerò dopo e regolarizzeremo. Dove scende?

–          Al capolinea – rispose lei, non conoscendo affatto la destinazione del treno.

–          Immagino abbia freddo, ha le mani completamente gelate. Le porterò una coperta.

Clara raggiunse il corridoio e entrò nello scompartimento. Tirò le tendine, si tolse la giacca e si sedette.

Una certa sonnolenza cominciò ad avvolgerle i sensi. I piedi le dolevano, fece volar via le scarpe.

Speriamo che non ho dimenticato altro – pensò – soprattutto i soldi.

Sfilò dalla tasca il piccolo borsello portadocumenti e controllò. Grazie a Dio ci sono.

Li posò sul sedile e li contò: duemila euro in biglietti da cento. Poi tirò fuori la carta d’identità. Osservò con tristezza la sua immagine di qualche anno prima: era semplice e sicuramente anche ingenua, ma bella e piena di sogni. Ora, aveva un aspetto assurdo: taglio ad onda, “super wawe” l’aveva chiamato l’acconciatrice della casa di moda, e per di più color platino! E poi, trucco pesante e sopracciglia tatuate. Anche quelle gli aveva imposto.

–          Hai due archi di peli che sembrano spazzole…- l’aveva quasi aggredita, usando un tono acido e sbeffeggiante -… E quando le spunti, ancora peggio, restano ispide come le setole. Bisogna far qualcosa, urgentemente.

E poi, la trovata geniale: – Ti porto in città e facciamo un make-up indelebile. Offro io. La mia segretaria se ne occuperà. Vedrai, piaceranno anche a te, eh paperina?

Te la do io la paperina, caro mio! Guarda cosa ha architettato la tua paperina!

Che altro c’era? Ah, sì, l’agendina e il biglietto da visita del mostro, il sedicente pigmalione, quello che avrebbe dovuto modellarla, migliorarla, istruirla culturalmente, fare della bella popolana un “delizioso mannequin”, come diceva lui, e una signora di mondo, ma in fondo cercava solo di soggiogarla, controllarla.

Lesse il cartoncino ad alta voce, imitandone l’inflessione affettata:

“Giovanni Ponte – Fashion Manager

 Responsabile sviluppo

performance e costing settore moda”.

Prese la matitina dell’agendina e aggiunse “figlio di buona madre”.

–          E adesso addio!  – esclamò – Chissà se all’inferno troverai un’altra stupida come me.

Si allungò sul sedile e chiuse gli occhi. Ripensò a quanto era bello, da bambina, starsene sdraiata sul pavimento a leggere o giocare con quattro vecchie cose, senza nessuno intorno, immersa nella sua fertile fantasia.

Gli venne in mente Giacomo, il babbo, e poi, lo sferragliare monocorde del treno la riportò a quando, allora appena tredicenne, si recava nella grande città. Una visita al papà lontano. Un’andata e ritorno maledettamente breve, dove quella strana gioia graffiante la scombussolava tutta non appena lo intravedeva, intabarrato nel vecchio e pesante giaccone marinaio, sotto la solita pensilina, al riparo della perenne pioggia di quegli inverni rigidi.

L’emozione la sommerse. Il tempo, ora, le sembrava sospeso a quegli spazi e a quei binari, tra il fischio di partenza, lo stridio delle fermate intermediarie e i battiti di cuore che acceleravano all’annuncio dell’arrivo in stazione.

Ora, il treno entrava e usciva dalle gallerie. Dove andava? Il bigliettino scivolò via dalle sue mani. Dischiuse un istante gli occhi e, come un naufrago esausto che tocca la riva, sorrise e si addormentò.

***

Jo, dormiva senza dormire, con i pensieri, i perché e i dubbi che penetravano e si conficcavano nel cervello come lame taglienti. Era infuriato e al contempo perplesso. Non riusciva a capacitarsene: come aveva potuto quella ragazza così sempliciotta architettare una morte così laboriosa?

Fortunatamente, se n’era accorto in tempo. Clara aveva messo il veleno nella coppa con il succo appena estratto dalle pesche, ma lui era passato davanti alla cucina e l’aveva vista mentre travasava cautamente e con i guanti da cucina, quello strano liquido dal colore insolito, limaccioso. Aveva pensato subito a qualcosa di tossico, nocivo; quindi era tornato in salone e aveva stappato lo champagne, con apparente nonchalance ma in fondo turbato. Lei era poi arrivata con l’elegante vassoio in porcellana e i calici pieni a metà.

–          Prendi un po’ di ghiaccio che il succo non è abbastanza fresco – le aveva ordinato – Il Bellini a me piace gelato, lo sai. Dovresti prepararlo prima e poi metterlo in freezer, quante volte te l’ho detto! A proposito, il maquillage con effetto fumo, vedi, ti dona da Dio. Adesso gli occhi risaltano e sembri anche più sexy. Son contento che cominci a truccarti più spesso. Questo sì che merita un bel brindisi.

 Quando lei era tornata dalla cucina con i cubetti di ghiaccio, aveva già scambiato i bicchieri.

–          Allora, cin?

***

Il treno procedeva spedito. Verso dove, era ancora un mistero, magari avrebbe avuto una bella sorpresa, una città piena di sole, di luce, e, perché no, con il mare vicino, chi lo sa. Doveva assolutamente chiederlo a quel signore, se e quando sarebbe passato, giacché fino ad allora non s’era visto nessuno su quel treno insolito, vuoto, leggero come un enorme giocattolo di latta.

Sentì il peso di una coperta sulle gambe. Si era appisolata o aveva dormito a lungo? In effetti, non aveva altro desiderio che lasciarsi andare in un sonno profondo, quasi letargico. Si, dormire le faceva bene, l’acquietava, dissipava i fantasmi in agguato fra le ombre della propria insicurezza.

Il capotreno aprì la porta distogliendola dai suoi pensieri.

–          Coraggio! – esordì – Siamo arrivati. Guardi fuori, è già mattino, vede? Il ritorno è previsto fra un’ora. E, questa volta, cerchi di essere puntuale, mi raccomando.

Quale ritorno? –  si chiese – non avrebbe fatto mai e poi mai marcia indietro.

Aprì gli occhi un istante, ma non vide altro che il sorriso glaciale e distaccato di Jo, chino su di lei, mentre la stava sollevando. Sentì i battiti cardiaci distanziarsi l’uno dall’altro. Scivolavano via quasi con eleganza, in un un addio composto, dignitoso, tum, tum, tum, senza fretta, nell’ordine delle cose.

Sarà questa la via d’uscita? – si chiese – Un modo per tirarsi indietro, smetterla di soffrire, essere finalmente liberi? Dove mi sono sbagliata? Perché lui è ancora lì ed io sto partendo?

Poi, di nuovo il rumore delle ruote sulle rotaie. Quel treno, sembrava sferragliasse su un letto di foglie, su delle nuvole. Un raggio di sole attraverso i vetri le si posò sulle mani. Ne avvertì il tepore e la dolcezza.

***

 

Jo, prese il bicchiere di Clara, ne tolse le tracce dai contorni quindi fece in modo che la mano di lei lo stringesse di nuovo, pensando alle impronte. Il suo piano era semplice: trasportare il corpo senza vita nella piccola serra, in fondo al giardino. Accomodarlo sulla vecchia poltrona di vimini, le braccia penzoloni lungo i fianchi e il bicchiere in terra, ai suoi piedi. Un suicidio tutto femminile, al veleno.

–          Ti credevi furba, eh paperina – le sussurrò, mentre la sollevava a forza di braccia – Se non è oggi, prima o poi ci avresti riprovato; allora, meglio tu che io.

Compì il tutto con gesti rapidi e precisi e in meno di un’ora ebbe finito. Ed ora, si disse, prima di chiamare i soccorsi e la polizia, fare il punto della situazione, sistemare le cose in modo plausibile. Nessuna sconsideratezza, nessun rischio. E, soprattutto, non toccare la centrifuga e il boccale con il resto del succo. Al bisogno, avrebbero trovato solo le impronte di lei.

Aveva ancora il fiato corto, era affannato, sudato. Spostare il corpo di Clara lo aveva sfinito ed ora aveva una gran sete, ma anche fame. Prima andò in camera da letto, trovò la borsa di lei, pronta per la partenza, la svuotò e rimise i pochi abiti nell’armadio. Quindi andò in cucina, prese un’acqua tonica e la bevve d’un fiato.

Dette un’occhiata al resto, nel frigo: pollo freddo, aspic di verdure, gamberoni lessi, carpaccio, un mucchio di cose buone e, il massimo, la torta al cioccolato fondente, la loro passione.

–          Grazie paperina – esclamò ad alta voce – Immagino che questa te la saresti sbafata da sola, dopo la mia morte.

Ne tagliò una bella fetta e la intiepidì al micro-onde, aprì un’altra acqua tonica e si accomodò nel salone, ora sgombro, e, prima di attaccare il dolce, prese il cellulare e compose il 113.

***

 

Fu un certo Vitiello, brigadiere di pubblica sicurezza, che rinvenne il corpo esanime del signor Ponte, sdraiato bocconi sul pavimento.

–          Quando ha chiamato? – chiese all’agente che lo aveva seguito nel salone.

–          Alle sei. Venti minuti fa, brigadiere.

–          Dai un’occhiata in giro e poi scendi di sotto. Da qualche parte, dovrebbe esserci una donna. È così che ha detto al telefono: ho trovato la mia compagna in fin di vita.

–          Ma il morto è un uomo brigadiè, mica una donna.

–          Ascolta! l’ambulanza sarà qui da un secondo all’altro. Fatti un giro e alla svelta.

Non si vedeva a un passo, la notte s’era lasciata dietro una spessa coltre di nebbia. L’agente reperì la fioca luce proveniente dalla serra, si avvicinò, entrò e trovò Clara riversa sulla poltrona da giardino.

***

Una vecchia littorina degli anni ’80, pensò, credevo non circolassero più!

–          Dica un po’, dov’è diretto ‘sto vecchio aggeggio? – chiese alla capotreno – Qual è la prossima fermata?

Anche lui, aveva fatto gli ultimi passi di corsa per afferrare il convoglio.

–          Buongiorno, in primo luogo. Lei mi sembra un po’ smarrito, sa? Questo treno non fa fermate, non ne è al corrente?

–          No che non lo so. Non so nemmeno dove diavolo va!

–          Quando si arriva in stazione di solito è per prendere un treno e si sa dove si deve andare. Questo è il primo del mattino, va al nord. Per il sud c’è quello di mezzanotte, fa un’andata e ritorno. Ma non credo che lei dovesse prendere quello, non ha proprio l’aria di uno che deve andare a sud, e tantomeno di uno che debba tornare indietro, o sbaglio?

–          Non capisco un’acca, cosa sta dicendo? E di che aria sta parlando, perdio!

–          Lei ha un tono pieno di arroganza, ma questo lei lo sa, glielo avranno detto in tanti, no?

–          Lasci perdere, è meglio. Piuttosto, mi dica: come faccio a rientrare? Ci sarà pure una sosta, una coincidenza da prendere da qualche parte.

–          Glielo ripeto. Non è prevista nessuna fermata e nessun rientro, ma non ci sente? Lei non è uno a cui piace ascoltare la gente, vero? Comunque, adesso prenda posto. Il primo scompartimento è completamente vuoto. Vedrà, non la disturberà nessuno.

Jo, decise di mettere fine alla discussione. Borbottò qualcosa, alzò le spalle e s’infilò nel corridoio. Il vagone era piuttosto freddo e lui aveva indosso solo la camicia e il girocollo in cachemire.

C’era un finestrino aperto. Prima di chiuderlo, si sporse. Il convoglio era appena uscito dalla stazione e già filava veloce nella pianura brumosa, allontanandosi ineluttabilmente dal borgo. Che stava succedendo, qual era la ragione di tutto ciò? Non riusciva a venirne a capo.

Lo sferragliamento del convoglio si mischiò a un vago vocio, qualcuno stava parlando non molto lontano, forse in uno scompartimento vicino.

La voce era rauca e monocorde, con un leggero accento meridionale:

–          Brigadiere Vitiello, signor tenente. La chiamo dalla villetta dei Ponte. La cosa è incomprensibile, abbiamo trovato due corpi e non uno, secondo me avvelenati. Mi trovo davanti a un tipo con la bava alla bocca mista a cioccolato. Sembra esanime. Forse avremo bisogno del legista e il resto della squadra. Non so se l’ambulanza servirà a qualcosa, questo mi sembra bello e che andato. Se il medico stipula il decesso ci sarà bisogno della scientifica, sennò li carichiamo entrambi e via all’ospedale.

 Jo capì, e di colpo dette un senso a tutto quel trambusto, al treno, al veleno e alla torta al cioccolato. Cristo, mi ha fregato alla grande! – pensò. Ora, avrebbe voluto urlare, dire qualcosa, sapeva che aveva pochi attimi per farcela, ma era come paralizzato. Solo un’infinita parte del cervello sembrava attiva, in vita: un’ultima fioca fiammella in un angolino della coscienza. Il cuore, quello, aveva già smesso di battere. Jo Ponte, fashion manager, figlio di buona madre, si stava spegnendo.

***

L’ambulanza sobbalzò ripetutamente sulla stradina di campagna. Una piccola lacrima le scivolò dagli occhi, colò sulle guance tingendosi di nero nel mascara e nell’ombretto. Aveva due cannule nel naso, degli aghi nel braccio e lo stomaco in fiamme. Ma che importa, se l’era cavata e a buon prezzo. Il prezioso antidoto, ingerito in cucina pochi attimi prima dell’arrivo di Jo, aveva funzionato. Ripercorse, con sentimento di giusto orgoglio, la seconda fase del piano: farsi vedere mentre diluiva il veleno, proprio così. Questo lui, dall’alto della sua presunta brillantezza, così pieno di sé e di superbia, non l’avrebbe mai immaginato. A questo scopo, aveva temporeggiato a lungo in cucina, sapendo che quando sarebbe uscito dal bagno l’avrebbe vista. E aveva scommesso, scommesso con sé stessa, pericolosamente, certa e convinta di prevedere esattamente la sua reazione. Jo, non avrebbe detto nulla, nossignore, ma avrebbe preso la cosa come una sfida, un’ennesima partita da vincere, e avrebbe cercato il modo di dargli scacco e affermare così, ferocemente, la propria superiorità, a rischio di giocare con la vita e la morte.

Ora era felice, sottosopra ma felice. Persino il suono emesso dalla sirena gli parve benefico, salutare. Non l’aveva mai gradito così tanto. Restava solo il malincuore di non poter scendere e correre, correre a perdifiato, in quella brughiera non più avversa, dove il sole dissolveva la nebbia.

 

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