Blu inferno – parte seconda

Amava i lunghi silenzi e le immense distanze; non c’erano confini segnati e i porti servivano solo per riposarsi, prima di riprendere il viaggio. Hugo Pratt, a proposito di Corto Maltese.

Caddi due volte, di cui una contro uno scalino di ferro, e mi ferii allo stinco. Zoppicando e maledicendo la tempesta trovai la cambusa, un corridoio ricavato dal ponte, scarsamente illuminato.

Tutto era sottosopra. In terra, una sfilza di conserve, fiaschi e brocche rotolavano da babordo a tribordo.

Osservai l’etichetta su un coccio di bottiglia, era un’acquavite di vino di Jerez, un ottimo brandy spagnolo, senz’altro la riserva personale del capitano. Tenendomi al corrimano, mi recai in un angolo con meno schegge di vetro e poche scatole sballottolate dal forte rollio. Gli sportelli delle credenze penzolavano e sbattevano, tenuti a stento dalle cerniere piegate e divelte a metà.

A un tratto l’imbarcazione si piegò su un lato, salì sulla cresta dell’onda e si tuffò in basso, dando l’impressione d’aver sollevato la chiglia fuori dall’acqua.

Barcollai e scivolai, atterrando con la testa su qualcosa di morbido. Era il ventre gonfio e floscio di Don Anibal, ubriaco e privo di sensi, con la camicia imbevuta di alcol. Giaceva come morto, rincattucciato dietro i cartoni. Una bozza, violacea e grossa come mezza mela, spiccava in piena fronte e aveva alcuni tagli sulle guance mal rasate.

La nave ebbe un ennesimo sussulto. Rotolai di fianco. Una luce bianca entrò dagli oblò, un lampo caduto non molto distante che illuminò la cambusa e tutto il suo scompiglio.

Ci siamo, mi dissi, è giunta l’ora. Pensai al Traga e a Tonio intrappolati in basso, in quella tana per topi. Eravamo ridotti all’impotenza, su quell’ammasso di lamiere dominato dalle onde.

Chiusi gli occhi, mentre tutto andava a scatafascio, aspettando lo scossone successivo, o la fine.

Di colpo lo scafo si raddrizzò e tutti gli stridori metallici del bastimento si unirono in un triste e disperato coro, come se il vecchio incrociatore urlasse di rabbia, cercando di resistere alla furia del mare.

Ed ecco che dalla mensa venne un calpestio di passi, fra i cocci. A fatica mi misi carponi e mi trascinai sulle ginocchia verso la cucina mentre la nave riscendeva dal cavallone. Finalmente, riuscii ad alzarmi, aggrapparmi con forza al corrimano e raggiungere la finestrella della porta. Vidi Zacarias, con un’orecchia sporca di sangue. Porca boia! – mi chiesi – ma allora chi governa la nave?

E di nuovo una risalita, quasi un balzo, e questa volta con la prua puntata verso il cielo. Pensai, la morte ha preso il comando della nave, stiamo volando! Si va a casa, oltre le nuvole…

timoniere

– Anibal! Anibal! – urlò l’altro – Alcoholico! Borracho! Donde estas?!

Diede un pugno violento contro una parete, si voltò e traballando si allontanò.

Ritenni più prudente uscire dalla dispensa. Pencolando di sbièco e cozzando contro tutto, imboccai diversi corridoi, alla ricerca del ponte di comando mentre la nave continuava, uno scossone dopo l’altro, a emettere tristi suoni inarticolati.

Si aprì una porta. Ne uscì il lavapiatti. Odorava di vomito ed era come stordito.

– Zac-Zac…arias la cerca – farfugliò – Sono sceso in cabina e non l’ho trovata.

– Cerca me? Ma ne è sicuro?

– Si, mi ha detto portami quello con la barba. Mi segua, l’accompagno dal comandante.

2016-05-17

Al timone!

Anche lui aveva bevuto, si sentiva dall’alito. Ma non era ubriaco, solo un po esagitato davanti alle carte nautiche.

– Ah, eccolo qui, finalmente! – esclamò – Ti ho fatto cercare dappertutto, ma dov’eri?

– Prendevo l’aria, approfittavo della crociera – tentai di scherzare, mentre un sobbalzo mi appiattì di schiena contro una parete.

– Devo ristabilire la posizione della nave – mi informò – Il timone automatico è in panne e stiamo deviando.

Si grattava di continuo i capelli, arruffati e pieni di pagliuzze, pareva appena uscito da un giaciglio d’erba secca, l’orecchia sporca di sangue raggrumato.

– Bella notizia – dissi, mentre il Chiquita s’infilava a testa bassa nel successivo avvallamento, fra le onde.

– Il mare è meno mosso, se riesci a stare in piedi puoi darmi una mano alla barra. Quel dannato Anibal è un bidone! Maledetto pelapatate, ubriacone!

Restai di stucco. Che cosa voleva il comandante? Che io, no dico IO, prendessi in mano le sorti dell’ex incrociatore?

– È molto semplice, amigo, non devi mica governare la nave, tranquillo! Solo tenere saldamente la barra mentre io valuto la deriva e ristabilisco la rotta.

Mi avvicinai al timone. Era enorme, in mogano e ottone. Quell’oggetto mi aveva sempre affascinato, fin dall’infanzia, quando mi incantavo davanti ai film di pirati. Avrei potuto finalmente toccarlo, rotearlo, aggrapparmi alle maniglie e anche manovrarlo! Era là, a portata di mano, lusinghiero. Sussurrava: Dai Nino, che un occasione così non si ripeterà più.

Allora, sebbene intimorito, annunciai – Ok, sono pronto!

Zacarias tolse un asse di fortuna che bloccava la ruota e la spostò di qualche grado.

– Ecco, mantieni così. Un minuto, solo un minuto.

Si curvò sulla carta nautica e trafficò col sestante, tracciò delle linee, lavorò con un cerchio graduato, concentrato e imperturbabile nonostante la gravità della situazione e l’eccessivo ondeggiamento, intanto che io, sudato per lo sforzo e la tensione, stringevo con forza le maniglie per non cadere.

Tornò rapidamente alla barra.

– Bisogna mantenere la rotta in modo che la nave avanzi e salga sul fronte d’onda in arrivo – mi spiegò.

Mi feci da parte, lui afferrò il timone, lo ruotò di circa 45 gradi e la nave scivolò leggera come una foglia sulla cresta dell’onda.

– Ecco, tieni così adesso.

Andò alla carta e poi tornò al timone, e alla carta e al timone. Non era più lo stesso, svolazzava agile e disinvolto come se il vento lo governasse, ringalluzzendo quella vecchia spugna imbevuta di birra e brandy. Il lupo di mare aveva ripreso servizio, lucido e efficiente.

Andammo avanti così per più di un’ora con quei va e vieni brevi e spediti, miranti a cavalcare l’onda e evitare botte sulle fiancate. Un lavoro preciso e tenace che tenne a galla il Chiquita e lo mantenne sulla buona direzione.

Cento tempeste e tre cicloni!

Il mare e il cielo decisero una tregua e dimezzarono la furia delle onde, della pioggia e del vento.

La cabina di comando aveva finestre su tre lati.

Zacarias poggiò le mani contro il vetro di un grosso oblò rettangolare che dava a poppa e fissò la volta celeste, ad ovest. I suoi occhi ora brillavano, sembrava pago e in pace con se stesso, forse anche felice. Parlò con voce sommessa:

Mira! Mira che spettacolo. Fra poco tutto riprenderà il suo colore e quest’inferno sarà di nuovo blu. Come l’amo questa immensità, hombre! Quando passeggio sulle sue acque assonnate o mi affanno contro una burrasca, l’amo comunque! L’amo sempre! A terra, non resisto, mi prende il cattivo umore. La mia adrenalina è qui, fra queste onde tormentate dal vento, su questo mare ambiguo. Solcare queste acque è di per se una grandiosa avventura, caro mio.

All’orizzonte, un curioso amalgama di turchese e di grigio diluiva il cielo nel mare e le prime luci del mattino lambivano la spuma delle onde.

Il comandante si allontanò dall’oblò e si avvicinò al portavoce. Comunicò alla sala macchine di aumentare il ritmo dei motori poiché, si lagnò, avevamo percorso appena 120 misere miglia ed era ora di prendere un’andatura più sostenuta.

Mi mostrò la carta, presto avremmo avvistato la costa. Eravamo a non più di quattro ore da Bojado, una piccola cittadina fra mare e deserto rivendicata da Marocco e Fronte Polisario. Da lì, via terra, avremmo dovuto percorrere tutta la costa sahariana per raggiungere il confine con la Mauritania, ma la nostra idea di raggirare via mare quella parte di deserto ci stava facendo risparmiare oltre 700 Km di strade sabbiose e piste, evitando una regione malsicura, dove i guerriglieri saharawi si opponevano militarmente alle forze regolari marocchine e mauritane.

Mappa-Sahara-Occidentale

Zacarias mi informò che avrebbe potuto continuare da solo.

– Però prima – disse, mentre tirava fuori da una cassa una bottiglia di brandy – Ci vuole un goccio di quello buono! Questo qui è meglio del Cognac – affermò riempiendo due bicchieri – Coraggio, mandiamolo giù d’un fiato! Beviamo alla salute della tempesta. La centesima, per l’esattezza. Cento tempeste e tre cicloni! Un bel primato, verdad? (non è vero?).

Una gradevole sensazione di vittoria, di pericolo scampato, mi avvolse mentre l’alcol incendiava le budella. La paura di capovolgersi, della morte, la stanchezza… tutto svanì come una gelida brina all’arrivo del sole.

– L’abbiamo scampata bella – disse – Stavamo derivando verso Tenerife.

Ingollò un secondo bicchiere, poi un terzo. Ispezionò con lo sguardo il ponte di comando e controllò la bussola di rotta sulla colonnina. Tutto a posto, mormorò a se stesso, todo esta bien!, quindi agguantò le maniglie del timone.

* * *

Jafar arrivò con del caffè. Ne bevemmo alcune tazze bollenti, in silenzio, poi spuntò Chancha. Era zuppo d’acqua (come al solito), avresti detto che qualcuno l’avesse legato sul ponte, durante la tempesta.

I due discussero a bassa voce. Il nostromo ingollò un po’ di quella ciofega calda con un’aggiunta di brandy e ripartì da dov’era venuto. Ma da dove?

A turno, uno dopo l’altro, passarono tutti in coperta. Il macchinista, la faccia nera di carbone, chiese a Jafar di andare a svegliare Eusebio, che il suo turno era finito.

– Deve occuparsi una volta per tutte di Don Anibal – confidò a mezza bocca al comandante – Non si può andare avanti così. Non ha nemmeno scongelato il pane.

– Ti mando Jafar in cucina, no te preoccupe, e a quel pelandrone ci penso io, al rientro lo sbatto fuori, e a calci nel culo.

Faustino partì soddisfatto, il capitano ingollò un’ultima sorsata di brandy e in un attimo sprofondò nei propri pensieri, gli occhi puntati sul mare, un leggero sorriso a fior di labbra, sul confine fra cielo e terra…

E il mare si calmò del tutto e il dondolio divenne semplicemente piacevole. Scesi giù a controllare gli amici ma non c’erano. La cabina puzzava, inutile pensare di distendersi sulla branda. Rinvenni i bagni e lavai la ferita allo stinco. Tornai in cabina, presi un cerotto dallo zaino e lo applicai sulla ferita.

Risalii sul ponte. Strada facendo incontrai Malik. Mi chiese se avevo dieci minuti da dedicargli che aveva bisogno di parlarmi, non appena avesse finito il suo turno. Risposi che per me andava bene ma che prima avrei cercato di dormire, che ero sfinito.

– Capisco, ma il viaggio è corto – disse – sarebbe bene che ci vedessimo un attimo prima dell’arrivo! Mi sembrate tipi giusti e vorrei mettervi al corrente di una cosina, dunque a presto!

Risalendo, mi imbattei nel cuoco, con la stessa camiciola maleodorante e sudicia della notte. Aveva un benda in fronte e alcune spennellature di tintura di iodio sulle ferite del volto. Con quella faccia gonfia e deformata dai tagli e in più le orecchie a sventola, pareva un dipinto di Soutine.

– È caduto? – chiesi ipocritamente – Anch’io. Guardi qua – aggiunsi, sollevando il pantalone fino al ginocchio – Mi sono aperto uno stinco!

– Uhmmm – grugnì, fottendosene del tutto – Si mangia un pochino più tardi, diciamo all’una! Se avete fame prima, Jafar vi darà del pane, o dei biscotti.

Ritornai sul ponte di coperta e chiesi al capitano se potevo sfogliare qualche pagina dei suoi volumi.

Sei amico dei libri? – domandò.

– Credo di si.

– Tieni il volante – disse, lasciandomi il timone.

Aprì un armadietto. Ce n’erano una cinquantina, molti dei quali rilegati, altri con i disegni d’epoca.

– Me li porto sempre dietro – mi assicurò – Se il mare dovesse un giorno divenire la mia tomba, scenderanno nel fondo, con me.

Praticamente, mi seguono da decine di anni, nave dopo nave… Puoi dare un’occhiata, se vuoi, ma da qui non escono!

Dopo un po’ Tonio s’affacciò alla porta, col suo folto parruccone, un autentico piumino cotonato. Il capitano si voltò e salutò con un cenno della mano.

– Ni, ci siamo persi il Traga. Non l’hai visto? – chiese.

– Dove vuoi che sia. Sarà fuori a controllare la Land, visto che pioviccica appena.

Chiusi il libro e l’osservai, sembrava Phineas dei freak brothers, magro e riccioluto, con la salopette azzurra.

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– Cosa ti sei trovato da leggere? –

Lessi il titolo a voce alta: «Fra l’equatore e i tropici» di De Sagarra.

Zacarias si voltò, un ghigno malizioso gli contrasse i muscoli della faccia storcendogli la bocca, un corto istante, poi riprese quella sua aria simulatamente assente, le mani sul timone e lo sguardo lontano.

Uova al piatto e patatine.

Un’ora dopo, il mare s’era completamente appiattito.

Tonio decise di andare sul ponte e vedere «sto benedetto incrociatore», alla luce del giorno.

Avevo fame. Decisi di andare in mensa e elemosinare un pezzo di pane, magari col burro.

Il Traga mi raggiunse poco dopo. Come previsto era andato a ispezionare la Land.

– Allora? Tutto a posto?

– È entrata l’acqua. Dopo prendo un canovaccio e asciugo. Per il resto i cavi hanno tenuto e, da non crederci, c’erano quattro ganasce imbullonate al suolo che bloccavano e assicuravano l’auto. Pare che le abbia fatte aggiungere il capitano prima della partenza! Bella mossa, il Zacarias!

Aveva indossato un completo azzurro da ginnastica, con la felpa larga e zippata, sicuramente per occultare la Glock.

– Sembri bello fresco – dissi.

– Tu invece hai una di quelle facce…

– Sono rimasto quasi tutta la notte sul ponte. Zacarias era solo alle prese con i comandi e le carte nautiche. Gli ho dato una mano.

– A che fare, scusa?

– Non ci crederai mai: ho retto il timone.

– Ah, ecco! Per un po’ ho pensato che la nave si stesse rovesciando, siamo caduti dalle brande, io e Tonio, non ti dico il casino.

– Quello era senz’altro prima. Sono caduto anch’io, per le scale, dietro la cucina…

Rise – He, he, he! Adesso si che hai di che scrivere stronzate sul tuo diario.

Scorgemmo Zacarias. Dava continue pacche sulla spalla di Faustino. Ripeteva «poveri cretini, poveri cretini…»

– E adesso chi c’è ai comandi?

– Sicuramente Don Anibal…

– Il cuoco? Ma su che cazzo di nave siamo saliti!

– Pare che sia stato nocchiere, ai suoi tempi…

– Si, mezzo secolo fa!

Zacarias sedette al tavolino accanto al nostro, davanti a un bel piatto di uova fritte.

Il Traga tirò fuori le napoletane e cominciò a mescolarle con una sola mano. Gli piaceva fare colpo e con le carte era un asso, sapeva farlo in tutti i modi, anche frammischiandole in aria, all’americana. Fece tre o quattro mescolate e distribuì le carte.

Jafar si avvicinò e chiese se avremmo gradito delle uova, magari con patate. Ci sembrò una buona idea e il Traga chiese se poteva averne quattro come il capitano.

Terminammo la seconda briscola e le uova erano già là, calde e stuzzicanti, con una montagna di patate fritte.

Divorammo il tutto in silenzio, pucciando il pane in un vasetto di salsa piccante.

Il Chiquita aveva smesso di cigolare, restavano il brontolio dei motori e un tintinnio metallico che veniva dal ponte.

Tonio ci raggiunse. Chiese un caffè e un po’ di pane che Jafar s’affrettò a servirgli. Aveva un’aria strana, era scuro in volto e si agitava sulla sedia.

Appena il capitano si allontanò ci riferì che Malik lo aveva abbordato sul ponte.

– Ha fermato anche me dissi, questa notte, ma dopo le parole del capitano ho evitato di dargli retta.

– Sapete cosa ha detto? Aprite bene le orecchie che qui c’è da ridere. A proposito, parla italiano…

– Si lo so – lo interruppi – dice che ha studiato a Perugia.

Il Traga mise un pezzo di pane in bocca, masticando chiese:

– E allora? Cosa cavolo vuole ‘sto pirla adesso?

– Ascolta Trag, il tizio mi afferra un braccio e mi fa: «Anche tu sei armato? Dimmi, siete tutti armati?»

Gli ho risposto che nessuno di noi porta armi, che non sapremmo che farcene.

– E lui?

– E lui ha detto che non dovevo mentire, che l’avevano vista tutti quella pistola! È finta, gli ho detto. È un giocattolo che il mio amico porta sempre con se. È del figlio, lui ha un figlio che non vede molto spesso… È come un portafortuna.

– Cazzate! – reagì il Traga – Ma mandalo a fanculo e basta.

Jafar si avvicinò e sbarazzò solo i piatti, lasciando le posate sporche sul tavolino. Avrebbe avuto bisogno di una doccia, appestava l’aria con un odoraccio di fritto e di sudore. Il Traga gli rifilò qualche pesetas. Disse: Quando hai tempo dai una pulita alla cabina così si dorme un po’.

– Il capitano mi vuole in coperta – rispose l’altro – Devo mettere un pò d’ordine. Ma dopo porto giù secchio, straccio e sapone e metto a posto. Intanto tenete, ho rifatto il caffè.

Scansò le posate sporche, dette un colpo di spugna, posò il bricco fumante e si dileguò.

– Vai, vai pure, che con quel tanfo appesti l’aria – si lagnò il Traga stringendosi il naso con le dita, e ridistribuì le carte.

A parte il sonno, stavamo bene. Scampato il pericolo, tutto sembrava semplice. Nemmeno la storia di Malik ci aveva preoccupato più di tanto. Insomma, le cose andavano lisce come l’olio e una briscolata ci stava.

Giocammo fino a metà mattinata, fin quando il Traga non cominciò a accendere una sigaretta dietro l’altra, quella intera dal mozzicone della precedente. Disse: smettiamo, sono cotto!

Jafar passò veloce per annunciarci che i letti erano a posto, che aveva perfino cambiato le lenzuola e passato lo straccio con un sapone profumato.

Stavamo per scendere in cabina allorchè Malik si presentò in mensa seguito da Eusebio. Indossavano pantaloni larghi da marinaio e magliette bianche pulite. Gli impressionanti bicipidi del gigante straripavano dalle maniche corte e attillate. Sembrava Lothar di Mandrake. Si appoggiò allo stipite della porta, schivo e diffidente come un orso.

Ci siamo, pensai, adesso ricominciamo con quella storia, e non mi sbagliai.

– Fantastico! – sbottò il Traga non appena lo vide – proprio ora che stavo andando a letto. Ma va föra di pè! (vai fuori dai piedi).

– Ragazzi – esordì il marinaio – Siete capitati nel momento sbagliato, oppure in quello giusto, dipende da voi.

De bun? (davvero?)- esclamò il Traga. Chiuse il mazzo di carte nell’astuccio e lo infilò nella tasca dei pantaloni, lasciando le mani sotto al tavolo, a un palmo dalla Glock. Lo conoscevo bene, si metteva in guardia, come al solito. Poi esordì:

– Hai gli occhi completamente rossi. Adesso scoppiano, che ti sei fumato?

– Mastico noce di Kola, nient’altro. Voi la bevete nella Coca Cola, io la consumo al naturale. Combatte la fatica, è ricca di caffeina e ci tiene su. Ed è tutto, nessuna droga.

– Allora, cos’è ‘sta storia della rivoltella? Cosa vi frulla in testa?

– Siamo a un passo da prendere il controllo della nave – rispose l’altro, senza fioriture – E non è uno scherzo, badate bene. È una cosa studiata e organizzata da tempo e siccome è per domani, poco prima dello sbarco, vorremmo assicurarci che voi siate dalla nostra parte. Siamo in tre, ma con le due uniche armi a bordo sarà più che sufficiente. Una volta tolta la pistola a Zacarias, quei pochi ubriaconi che restano se ne staranno buoni buoni e se c’è bisogno li chiudiamo in una cabina, con quattro o cinque bottiglie di acquavite.

Tirò una sedia a se e si sedette a cavalcioni. Eusebio, le braccia incrociate contro il petto e le mani chiuse a pugno, masticava e impastava lentamente la sua noce africana. Malik gli getto un’occhiata e continuò:

– Ascoltatemi bene. Il vostro arrivo su questa nave non era previsto, siete spuntati fuori all’improvviso ed ora noi siamo nei casini! Fra poche ore il Chiquita cambierà padrone e noi vi abbiamo fra i piedi… Dobbiamo trovare un accordo.


Hai perso la prima parte del racconto eccola: Blu inferno

Vuoi leggere la prossima? Prego: Blu inferno – parte terza