Katia Lorn

https://www.flickr.com/photos/hummyhummy/Difficile di immaginare lama più affilata e tagliente di quella tristezza, quel mattino. Entrava nella carne, silenziosa e cinica. Forte del fatto che ero inerte. Supino e inerte come un tonno morto portato a riva dalle correnti.

Fuori albeggiava. Ad est, il cielo, soffice e inebriante, stava sguainando un lieve tono ambrato e caldo. Più in alto, blu, ancora infagottato dalla notte, lanciava al mio assalto un ultimo strale di stelle mattutine. Infame! pensai, mentre la lama affondava gioiosa e mi tagliava il ventre vuoto della notte, Guarda come sei grande e maestoso… Ed io che mi sento morire! Alcune lacrime m’inumidirono gli occhi, le altre restarono dentro. Ben conservate in quell’angoletto riparato dell’anima, insieme ai cattivi ricordi e alle nostalgie. Una scatola nera con tutte le disfatte, i dolori, le false speranze, i tradimenti, i ruffiani, gli antipatici, gli odiosi…

Il rumore dei passi di Katia, appena scesa dal letto, distolsero il mio sguardo dal cielo. Mi strofinai gli occhi, posai il suo cellulare sul divano, là dove lo aveva dimenticato quella notte, e provai a sfilare la lama. Inutile. Restava inficcata come un ombrellone piantato nel cemento. Stare da solo, ecco cosa volevo, stare da solo e togliermi quel coltellaccio dall’addome.

Andò in cucina. Svuotò il resto della moka nel lavandino. Svitò, lavò abbondantemente ogni singolo pezzo. Caricò la miscela nel filtro, avvitò e mise sul gas. Io, l’orecchio teso, in attesa dello zampillo fumante del caffè, percepivo e misuravo ogni mormorio, fruscio, brontolio, sovrapposti al fischiettio dei primi uccellini migratori, che da pochi giorni venivano di buon mattino, a becchettare e assaporare cose minuscole nel giardino, scacazzando qua e là.

Katia aspettò lo sbuffo della macchinetta e spense la fiamma. Travasò il caffè nella sua tazzina preferita. Un gesto consueto, monotono, in fase colla terra che continuava a girare tranquilla e annoiata. Io, nel semi buio del salone, aspettavo un buongiorno, senza sperarci troppo. Da oltre sei mesi, il muso era pane quotidiano. Un muso tutto suo, un misto di fatica e cattivo umore che gli increspava la fronte, ornandola di piccole rughe, lunghe e fini, che gli alteravano e intensificavano quello sguardo di donna forte, dominatrice, pronta a battersi ad ogni momento, come se la sua vita non fosse altro che una serie infinita di piccole e grandi battaglie, tutte da vincere, senza possibilità di fuga o di ritirata. Determinata e rabbiosa, alternava spesso il grigio livido del suo malumore col giallo di un’allegria  improvvisa,  e, come un sole, inondava tutto di calore.

Provai a muovermi, a cambiare posizione, ma rimasi sdraiato sul dorso, tonno rigido dilaniato dai granchi sulla riva. Un corpo immobile, difficile da sollevare. Quel caffè riscaldato al micro-onde mi aveva saccheggiato le budella e i sensi. Pensai a una droga, a un veleno. Qualcosa senz’altro c’era dentro. Guardai di nuovo il cielo, poi il telefono. Mi era sembrato strano che non lo avesse ancora afferrato quel suo cazzo di telefono. Di solito erano i primi gesti di Katia, caffè, sigaretta e smartphone. Comporre il codice, segreto (beninteso!), visualizzare messaggi e post, insomma dare il via alla giornata. Ma questa volta no. Non subito, almeno. Forse lo aveva fatto apposta, voleva che leggessi quel messaggio, chissà. Ascoltai il rumore delle sue labbra che sorseggiavano timidamente il caffè, sicuramente troppo caldo. Ascoltai senza reagire, aspettando che la sua voce ghermisse il silenzio, ma inutilmente. Mi stavo addormentando di nuovo, inesorabilmente, frastornato, le gambe doloranti. Prima di chiudere gli occhi accennai, con un tono velato : – Ma cosa hai messo nel caffè!? – mentre lei andava a sedersi accanto al caminetto, pronta con la prima sigaretta.


Dormii come un masso, con la netta e disperata impressione di annegare in tutti i miei liquidi corporei, sangue, urina, sperma e midollo spinale… saliva… Un forte gusto di fiele montò dall’esofago, usurpando trachea, laringe, bocca, lingua, narici. Aprii leggermente gli occhi, totalmente invaso da tutto quell’amaro. Katia non si mosse, seduta accanto al busto di Buddha, sul bordo del caminetto. Ora era truccata. Gli occhi d’un marrone scurissimo, quasi d’ebano, profondi e selvaggi, si posarono sui miei capelli grigi, o sulla fronte. In effetti sembrava osservasse un punto sopra di me. Mi guardava senza vedermi. Mi guardava senza alcuna espressione, zero emozioni. Uno sguardo distaccato di chi ha deciso di distaccarsi. Il brontolio del motore del frigo la scosse. Allungò una mano verso il pacchetto di Camel. Accese e ne fumò la metà. Gettò il resto nelle braci spente. Si alzò e partì di scatto, come se avesse dimenticato qualcosa. Un attimo e tornò colla caffettiera di nuovo piena.  Tieni, beviti quest’ultimo goccio, disse avvicinando il beccuccio alle mie labbra. Bevvi il caffè direttamente dalla moka, forzato a berlo d’un fiato. Freddo, senza zucchero. Tornò al caminetto e ne accese un’altra. Il cielo schiarì e il sole spuntò dalla collina. Il giorno ora era intenso e luminoso. Pensai al mese di giugno, ma eravamo ancora al mese di marzo. Pensai al rossetto scarlatto e al nostro primo ristorante, e quell’albergo vicino al mare, il vento salato, le labbra salate. Mi venne da  piangere, ma sempre senza lacrime. La scatola nera era ermetica. Tentai di muovermi, tentai di parlare, tentai di sorridere stupidamente, tentai di capire, perdonare… La testa girava e non riuscivo a respirare. La situazione peggiorava. Katia Lorn andava per le spicce. Mi aveva propinato un’altra dose di caffè al veleno… Porco diavolo!  Sono in pieno assurdo! Il tempo avanzava e batteva nelle mie tempie. Adesso avevo freddo. Freddo e di nuovo sonno. Sonno e di nuovo solo, disperatamente solo, come un moccolo di candela agli ultimi e tenui bagliori… La luce! Oddio la luce… Non ci vedevo quasi più.


Quando mi risvegliai, l’orologio a muro, un pendolo in vinile rosso, goffo e triste come un pesce palla in un misero e stretto boccale , segnava  mezzogiorno. Legato come un salame sulla sedia a dondolo, oscillavo avanti e indietro spinto alle spalle da Katia Lorn, la mia piccola e dolce metà. Un angelo nero, seducente e astuto, ora diabolico, deciso a andare fino in fondo. In fondo a cosa? Qual era il suo piano? Mi stava veramente accoppando? Non so perché, ma avevo ancora qualche incertezza…o speranza, non so. Gli occhi mi bruciavano e facevo fatica a respirare con quel bavaglio, ben stretto, dal mento alla nuca. – Sto aspettando la tua morte! – disse con un tono rauco e impersonale, tanto per togliermi ogni dubbio sulla mia esile e ipotetica possibilità di scampo – Non manca molto. Vedrai, è un affare di poco, un’ora al massimo, forse meno. L’amaro in gola e la sensazione di soffocamento dovuta a quel topaccio in bocca mi torturavano e mi davano il vomito. Un gemito disperato, di pura tristezza, mi attraversò il cervello e andò a infrangersi nel nulla. Nessun suono. Non battei ciglio, a cosa sarebbe servito un mio lamento? Conoscevo bene quel carattere, sicuramente non aspettava altro. Una mia lagnosa capitolazione! Nauseato e impotente, a poca distanza dalla morte, comunque fiero e impavido anche sull’orlo del precipizio, iniziai una cantilena. Un vecchio motivo rimesso a nuovo di recente. A mia grande sorpresa, sebbene vivo solo a metà, riuscivo ancora a ricordarne le parole. Dentro, la mente sgranava una dopo l’altra le strofe, mentre col naso riuscii a ottenere un mugolio, basso e monocorde, sulle orme di quella canzone che avevamo canticchiato così tante volte:

Ma cosa hai messo nel caffè/

Che ho bevuto su da te/

C‘è qualche cosa di diverso adesso in me/

Se c’é un veleno morirò/

Ma sarà dolce accanto a te…

Katia Lorn riconobbe l’aria. – D’accordo, vuoi giocartela così? – quasi gridò – Voglio proprio vedere quanto riesci a cantartela! Quanto fiato ti resta!… Ecco! Armeggiò e sciolse i nodi di quella musoliera di stoffa, tolse lo straccio che mi aveva infilato in bocca e mi si piazzò davanti, le mani sui fianchi, lo sguardo minaccioso, dipinto di MORTE, oltraggiosamente vivo. Mi lasciai frugare, scavare da quegli occhi improvvisamente assassini, quasi volessero localizzare ed estrarmi l’anima.. Respirai con avidità. L’aria mi sembrò calda, satura di granelli affilati, taglienti. Parlagli con calma, mi dissi cerca di distrarla, prova a capire se c’è una via d’uscita. Ma la risposta venne da sola, tirata a sorte fra le migliaia di risposte possibili da un cervello colla logica fissa dell’omicidio. – Tanto, anche se strilli non ti sente nessuno, sempre che ce la fai a strillare… coglioonazzo! Canta! Canta che ti passa… Cambiai idea. Decisi di non fiatare,meglio non parlare! Morditi la lingua! Stai zitto!… Storsi il collo per guardar fuori. Era quasi primavera. Lontano, un raglio di un asino, poi un altro. Pensai a quando scelsi il terreno, qualche anno prima. Ben isolato, naturalmente, ma così isolato…Spostai lo sguardo su i suoi piedi, piccoli e curati… non guardarla, non sfidarla, lascia che si calmi… Una fitta allo stomaco, lunga, interminabile. Gettai fuori qualcosa di giallastro. Un fiotto breve, maleodorante. – Dai un’occhiata, mio caro! – disse aggiustando la sedia a dondolo contro la vetrata, senza tener conto del mio vomito (nessuna compassione!) – Vedi? C’è solo il tuo stramaledetto giardino e il muro di cinta. Guarda come lo hai fatto alto il tuo muro…Non ci vede nessuno, e già! Nessuno può vederci…ne sentirci… Un merlo nero svolazzò qua e là, a un metro dal tappeto d’erba rasata corta, fitta e rigogliosa. Era bella da vedersi. Fu una visione nitida, quasi piacente. Dal cielo azzurro e senza nuvole a quel verde pieno, chiaro e luminoso, dai toni primaverili. Un verde dominante, senza incertezze. Il compenso di un’intera giornata di sudore, col tosaerba elettrico nuovo di zecca, a tre velocità e tre altezze. Un lavoretto d’artista… Osservai intorno. Sull’olivo c’erano tre merli. Sotto l’albero, alcuni funghi rosei avevano fatto capolino. Più in là la fossa, scavata da non molto, la pala interrata fino al legno sul monticciolo di terra fresca. Ma quando l’ha scavata ‘sta buca, ma quando? Stomaco in fiamme. Piombo sulle palpebre. Di nuovo il sonno, viscido e liquido, penetrante. Prese a scorrermi nelle vene a tutta birra. Sentii i muscoli irrigidirsi. Una penosa sensazione di catalessi stava conquistando, inesorabile, ogni cellula del mio corpo. Il veleno, chissà quale veleno, conduceva  a termine il suo scellerato e funesto incarico. La musichetta di quel maledetto telefonino provò a scuotermi dal torpore. Intravidi confusamente Katia Lorn, le mani ancora sui fianchi. Esitò un istante, poi mi baciò sulla fronte, senza tener conto del mio vomito (nessuna compassione!) e andò a rispondere a chissà chi, allontanandosi verso la cucina, sculettando un po’, tanto per ricordarmi che quello che stavo perdendo era per sempre, culo compreso…(nessuna compassione!). Samsung all’orecchio, vestaglia aperta, capelli corvini scarmigliati, quel ridere rumoroso, un po’ forzato… Il sonno mi avvolse completamente, pensai: Amen! Adesso ci siamo! Un liquido caldo prese a scendere sulle cosce, mi stavo pisciando sotto!


Saltai giù dal letto per non farmela addosso. Corsi in bagno e scaricai abbondantemente. Katia russava, un brusio tenue, per nulla volgare, una compagnia mattutina anche abbastanza gradevole. La guardai a lungo, senza particolari emozioni, come fossi già morto. Andai in salone, il Samsung era là, dove lo avevo visto quella notte. Nero e sprezzante. In cucina, scaldai il caffè del giorno prima. Lo zuccherai appena, tanto per togliermi l’amaro dall’anima. Lo bevvi, consapevolmente avido. Guardai attentamente lungo le pareti, e non c’era, grazie a Dio, il pendolo rosso.


Foto: Freud e un caffè, Gilberto Taccari su Flickr

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